“‘Hanno tutti fretta’, disse il piccolo principe. ‘Che cosa cercano?’ ‘Lo stesso macchinista lo ignora’, disse il controllore”. Capitolo XXII de Il piccolo principe. Quaranta ragazzi di prima media seduti per terra in cerchio, dopo avere ascoltato le parole della volpe che ha messo in fila tutti i passaggi di un grandioso disegno sull’esperienza dell’amicizia, si ritrovano a inseguire un treno, le parole del controllore, l’amarezza di una triste constatazione: i passeggeri di quel treno “‘non inseguono nulla’, disse il controllore. ‘Dormono là dentro, o sbadigliano, tutt’al più’”.
Fare, disfare, andare, programmare, studiare: qual è il senso? Cosa stiamo cercando? Perché se non sai quello che cerchi, la vita è inutile, le cose non hanno valore. C’era bisogno di quella che ancora qualcuno pensa essere una fiaba per bambini per arrivare al punto vero non solo di una giornata, ma di tutta l’esperienza scolastica di un anno intero. E quello che vale per la vita di questi ragazzi e per la mia, non vale anche per la scuola? Che cosa non ha funzionato nell’educazione? si chiedeva su queste pagine Raffaella Paggi.
Per rispondere a questa e all’altra, fondamentale domanda: Che cosa è necessario fare oggi? chiamava in causa Pavel Florenskji, uno che aveva ben chiaro che la cosa essenziale nell’educazione era e rimane quella di insegnare a pensare. E che il pensare – anche e soprattutto quello cosiddetto scientifico – ha a che fare con la domanda di senso, con il mistero.
Ma come: la scuola crolla, i nostri studenti non sanno più cosa, perché e come studiare, i nostri insegnanti non sanno più cosa, perché e come insegnare e noi dobbiamo perderci in questioni filosofiche? Non varrebbe la pena invece mettere lì qualche centinaio di milioni – per restare nella metafora de Il piccolo principe – per sistemare i binari, aggiungere carrozze, migliorare le stazioni, informatizzare i servizi? Cioè, per uscire dalla metafora: non basta mettere lì nuove aule informatiche, spazi rimodulabili, nuove opportunità logistiche e tecnologiche per il superamento della terribile lezione frontale che viene ritenuta da tutti la causa suprema del male della scuola italiana?
No. Non basta. Non bisogna avere paura. Bisogna dire, con Florenskji e con Saint-Exupéry, le cose come stanno: che il vero, l’unico talento che occorre coltivare è esattamente quello del pensiero. Che consentirà a ciascuno di coltivare anche una sua particolare attitudine, di sviluppare i suoi talenti, di fargli raggiungere il successo formativo. Così suggerisce Florenskji per educare persone responsabili, solide e libere, e così propone Paggi: “occorre rendere essenziali gli insegnamenti, fare esperienza dell’universale nel particolare, non assolutizzare un ambito di riuscita”.
È del pensiero, della capacità dell’uomo di porsi di fronte alla realtà e di domandarsene il senso, di questo vero talento umano che si deve fare carico la scuola. E allora tornano in gioco Florenskji e Saint-Exupéry, naturalmente: qualcuno più di loro ci ha insegnato che l’essenziale è invisibile agli occhi?
Per fortuna non sono soli. Abitano in una grande e bella compagnia di scrittori e poeti che però muoiono dentro i libri di scuola o, peggio ancora, dentro slides anonime e vuote sullo schermo: date di nascita, una giusta dose di gossip, parole che finiscono in –ismo che viaggiano inutili come le carrozze del treno de Il piccolo principe. E invece, se qualcuno tornasse a fare sentire la loro voce, Leopardi e Pascoli, Ungaretti e Montale, Rilke e Zagajevskji sarebbero gli alleati più preziosi per il compito più urgente di cui oggi la scuola deve occuparsi. Le loro parole contano perché fanno i conti con la realtà, con l’interrogativo che ne nasce, con il doloroso e inesausto desiderio di una risposta.
Dati Invalsi disastrosi per le competenze matematiche e linguistiche e noi dovremmo stare ancora a perdere tempo con la poesia? Non è forse propriamente quella cosa di cui in fondo tutti farebbero volentieri a meno nella situazione attuale? Davvero bisogna tornare alla poesia? Non me lo toglie nessuno dalla testa: tra gli essenziali di cui la scuola ha bisogno, la poesia è tra i più essenziali. Sempre se quello che dobbiamo fare è aiutare chi impara ad imparare a pensare.
Qualcuno potrebbe obiettare che la poesia c’entra poco con il pensiero, che il suo paese è un altro: quello delle emozioni, dei sentimenti, delle sensazioni. Certo, in un mondo e in una scuola in cui si è rinunciato a pensare, anche la poesia è diventata altra cosa da quello che è. Michel Houellebecq, in una sua intervista, ha il coraggio di dire che “fino a che si dimora nella poesia, si dimora anche nella verità”, e basterebbe leggere L’infinito di Leopardi per accorgersene: celebrato nel 2019 con spettacolari manifestazioni, qualcuno si è forse accorto che quello che viene ritenuto il manifesto del romanticismo sentimentale e irrazionalista, in realtà è il racconto di come il pensiero umano procede? Il pensiero, non l’immaginazione soggettiva: dal particolare osservato nella sua limitatezza, la ragione umana pone (finge, cioè costruisce, plasma, immagina) la necessità di un Altro che sia fondamento e orizzonte di quel particolare. Lo hanno fatto Newton, Einstein, Planck. Lo rifà la poesia, ogni volta che fa il suo mestiere. Ogni volta che mette sotto la lampada, sotto lo sguardo nostro e dei ragazzi i piccoli particolari di cui è custode. Ogni volta che guarda il mare e si dice che “tutte le immagini portano scritto più in là”, ogni volta che passa un treno e si chiede dove va e perché. Ecco “perché i poeti nel tempo della povertà”. Togliamoli dai libri, dalle slides, leggiamoli a voce alta, buttiamoli in pasto agli studenti, facciamoli parlare con loro. Facciamo ripartire questo treno. E chiediamo almeno che anche il macchinista si lasci interrogare sul suo viaggio.
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