Caro direttore,
come si fa a dire a una classe che quello che è stato spiegato proprio l’altro ieri è errato? Che cosa può aver provocato un imprevedibile cambiamento?
Era tutto bello, facile, lineare. Marc Augé, antropologo francese di chiara fama, distingue i luoghi dai non luoghi. Il luogo ha tre caratteristiche fondamentali: identitario, storico, relazionale, mentre il non luogo non ha identità e non produce relazione (metropolitana, aeroporto, ecc). Poi persino i compiti ben fatti dai ragazzi. Un luogo è lo storico oratorio, il baretto che è lì da tempo, mentre che spersonalizzazione e indifferenza nelle metropolitane! Tutto uguale, tutto identico da Tokyo a Mosca, da Parigi a New York. Sguardi bassi, impersonalità, desiderio di stare nel proprio.
Poi però arriva lui: il buffo ometto di nome imprevisto. E capita così di dover ritornare a Milano, dopo quindici mesi, per fare una visita medica importante. Si sa, peraltro, che quando è necessaria l’ultima parola sulla propria salute si va a Milano, anche se i giornali dicono che la sanità ha diversi problemi. Ma anche qui conta l’esperienza. E perciò, asfissiati dalle tante ore di mascherina, si entra nella metropolitana, cioè il non luogo, dopo aver ricevuto notizie confortanti. Che cosa strana andare sotto, nel ventre della terra con la mascherina che dà fastidio! Manca il respiro e non si è più abituati alle grande città. Non bastava l’esser già stati nel buio della pandemia e aver avuto il Covid! E poi lì gente, tanta gente, forse troppa, per un provinciale periferico, e di tutti i tipi. E poi, all’improvviso, una giovane donna straniera che ti chiede in un improbabile inglese quante fermate mancano per la Stazione Centrale, mostrandoti la foto per essere più certa. I suoi occhi domandano con fiducia: un essere umano chiede gentilezza a un altro. Mentre c’è un giovane che legge su un lettore un e-book, tutto assorto, un libro davvero difficile. E ti chiedi: ma come fa in piedi? E poi vedi gli sguardi di due giovani che oltrepassano la mascherina e le porte del treno: si cercano, si amano. Desiderano e vedono oltre, con gioia speranzosa. E scorgi una vecchietta acciaccata dagli anni che preoccupata pensa a chissà cosa, accanto a una giapponesina, senza macchina fotografica, di straordinaria eleganza. E un africano: cerca, gira, si volta, impacciato, cercando lo sguardo di qualcuno: di un altro. Un luogo.
La metropolitana di Milano è un luogo. C’è l’umano: tutto. Allora bisogna sottomettere la ragione all’esperienza: è proprio vero. Tutto vero: Guitton, don Giussani, Carrón. Perché quel treno che va a destinazione ci ricorda tutto quello che abbiamo vissuto e viviamo: paura, tristezza, lotta, scoraggiamento e dunque giù e poi di nuovo su, con amicizia, combattività, voglia di farcela, rialzando timidamente la testa, grazie a chi vuol bene al nostro essere unici. E il passare dei vagoni attraverso il buio ci ricorda non che Milano non si ferma o che va/andrà tutto bene, ma che Milano non si è arresa. Però non è stato uno sforzo o una bravura, anche se “Milan l’è un gran Milan”, ma è che dal di dentro della nostra vita c’è un Nonostante. Nonostante le ferite, nonostante le ammaccature, nonostante l’esser fiaccati, nonostante noi stessi e il nostro galleggiare insicuro, c’è un fattore inspiegabile che brilla dentro quei volti della metropolitana: un luogo in cui pulsa una speranza imbattibile. Domani la lezione sarà un’altra.
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