Caro direttore,
accetto volentieri l’invito a riprendere il discorso sulla bocciatura. Ci siamo già detti nelle settimane scorse che non dovrebbe mai essere strumento di esclusione, ma un fatto di promozione, cioè di crescita personale, quindi, di (ri)orientamento, di consapevolezza delle condizioni dell’avventura della conoscenza dentro e fuori la scuola.



Il punto che vorrei focalizzare questa volta ruota attorno ad alcune domande: come aiutare un/a ragazzo/a a guardare e trattare la sua bocciatura in termini costruttivi? Quale compito dei genitori al riguardo? Come accompagnare i giovani a vivere la valutazione finale, che normalmente, quando è negativa, appare loro come un’ingiustizia?



Premetto subito che, se siamo realisti, non possiamo pretendere che la risposta sia univoca. Non può possedere il carattere di una ricetta clinicamente scientifica. Appartiene, infatti, alla categoria del rischio educativo, perché ci sono in gioco fattori come la libertà, la storia, il contesto sociale e familiare del ragazzo.

Che cosa può fare dunque un papà, una mamma, un docente nel sostenere un giovane a ricominciare, a ritornare lì dove si percepisce (o si percepiva) come “rifiutato”?

Innanzitutto è importante che il genitore accetti quello che definisce “verdetto dei docenti” e la conseguente situazione di disagio, di delusione, di scoramento in famiglia. Ciò non vuol dire affidarsi alla rassegnazione; neppure rodersi l’animo attribuendo alla bocciatura il valore di un fallimento personale o di accanimento da parte della scuola. Significa porre le condizioni per una lettura critica, leale ed efficace dell’anno scolastico da condividere con il figlio. Si tratta di una condivisione reale, che non avviene perché si imbastiscono discorsi persuasivi, ma perché il figlio (l’alunno), notando che la famiglia, se pur con dolore e dispiacere, accoglie la bocciatura, si sente accolto: è certo che nonostante l’esito scolastico gli adulti che gli stanno vicino non l’abbandonano, lasciandolo andare alla deriva dopo averlo caricato di colpe.



Il guaio è che spesso il genitore assume il ruolo del sindacalista del figlio, dimenticando che il suo compito è educativo a tutti i livelli e si esprime nel (far) guardare in faccia quello che è accaduto e nello scoprire che esiste una via di uscita anche da un tunnel oscuro e inaspettato. Dovrebbe, invece, essere disposto a collaborare con la scuola e con il figlio per capire come perché si è arrivati alla decisione del consiglio di classe, come e perché riorganizzare tempi, luoghi e strumenti sulla base di un’ipotesi di atteggiamenti, comportamenti ed operazioni adeguati all’essere studente in quel grado di scuola frequentata.

In una trama di rapporti educativi, caratterizzata, più che dagli esiti, dalla proposta coinvolgente e della verifica cogente dell’ipotesi didattica, la bocciatura si svela come risveglio di consapevolezza che i nostri atti ci seguono e nello stesso tempo come un’ulteriore opportunità. Non è fonte di litigi, né di ricatti reciproci, né di punizioni dentro e fuori la famiglia. Occorre per questo che l’adulto sappia affermare con l’essere, con i fatti e le parole che c’è un bene anche in una circostanza dolorosa come la bocciatura.

Mi viene in mente al riguardo una signora che di fronte ai docenti della seconda sezione di scuola media si è dimostrata una leonessa per evitare al figlio la bocciatura. Ma davanti alla pagella ha saputo incoraggiare il ragazzo dimostrando di essere certa che ripetere l’anno non è una condanna, né una perdita di tempo, ma una sfida, un rientro in partita. “E tu puoi vincerla!”

Ricordo anche quello che è capitato ad Andrea, che nell’ultimo anno del liceo linguistico si ritrova inaspettatamente non ammesso all’esame di maturità. La sua reazione è violenta: per una settimana si chiude in camera prendendo le distanze da tutti. I genitori sono preoccupatissimi. La preside, informata del fatto, chiama al telefono Andrea e gli fissa un appuntamento per un colloquio. Il giovane inizialmente tentenna, poi, il giorno dopo, si presenta all’ufficio di presidenza. La dirigente, appena lo vede, si alza dalla sedia, gli va incontro e l’abbraccia. È allora che il ragazzo si scioglie in un pianto dirotto. La preside gli dice che le dispiace moltissimo ma la bocciatura era inevitabile sia per l’andamento disastroso dell’anno scolastico sia per il suo prosieguo negli studi. A poco poco Andrea capisce che la bocciatura è all’interno di un’ipotesi positiva. In pratica gli rimane il dolore ma si riaccende la speranza di traguardi di nuovo raggiungibili.

Questi ed altri episodi mi convincono che la bocciatura dovrebbe avere carattere eccezionale e, nello stesso tempo, dovrebbe sempre essere adeguatamente motivata non solo guardando il passato ma puntando anche futuro immediato. Ovviamente questo implica uno stile comunicativo di tipo argomentativo e una pratica della valutazione, che liberata dai suoi feticismi (misure basate sulla media aritmetica, definita “frode matematica” da Hadij, e su una presuntuosa e pretestuosa oggettività), diventi una risorsa educativa. Solo in questa prospettiva la bocciatura è feconda. Non è una perdita dell’anno, ma un’opportunità di riprendere il cammino con una consapevolezza dei propri limiti, dei propri punti di forza, delle condizioni per lo sviluppo dei talenti.