Si è da poco conclusa la prima tornata di impegni istituzionali della scuola (due collegi docenti, due consigli di classe, due consigli di istituto, due riunioni di dipartimento) e, nonostante sia ancora visibile l’originaria utilità di tali appuntamenti, colpisce la facilità con cui essi vengono riassorbiti in una routine di disincanto che ne riduce il potenziale di strumento al servizio del fattore umano di cui è permeata la scuola.



Colpisce pure la tendenza di chi guida le istituzioni scolastiche a trincerarsi dietro i vari regolamenti, Ptof, Pcto adattato alla bell’e meglio, statuti, codici deontologici scritti o non scritti, mansionari, relazioni, verbali, protocolli di comportamento (e chi più ne ha, più ne metta). Ma per quale motivo?

Sicuramente c’è quello di salvaguardare il buon nome della propria istituzione; del resto, gli open day si avvicinano e la paura del flop nelle iscrizioni è un rischio reale; il passaparola, si sa, è un’arma efficace e a doppio taglio in questi casi. Insomma, meglio salvare le apparenze nella speranza che poi le cose, per chissà quale miracolo debba accadere, cambino.



Ma tutto questo (spesso, non sempre) finisce per impedire di guardare in faccia la realtà fatta di ragazzi in carne, ossa, sentimenti, paure, attese, emozioni, desideri, e che, sempre richiamati ad obbedire a delle aspettative comportamentali dettate dai vari ambiti che frequentano, rimangono alla frenetica ricerca di un luogo dove poter essere sé stessi.

“Devi essere come un uomo, come un santo, come un Dio. Per me ci sono sempre i come e non ci sono io (…) Chissà nella mia vita quante maschere ho costruito”. È un rischio per tutti, ma non è forse questo spesso il rischio dei ragazzi a scuola? Siamo sinceri: quando all’ordine del giorno dei consigli di classe appare “analisi della classe e dei singoli casi” il 100 per cento della discussione tra i docenti è fatto di frasi come: “questo non ce la fa; è sempre distratto; non studia; lei è brava, ma non interagisce, è sempre silenziosa; si accontenta del minimo”. E se qualcuno azzarda: “cosa facciamo?” il silenzio e il gelo calano fino alla voce liberatoria del coordinatore di classe che dice “passiamo al prossimo punto all’odg”.



Mi scrive una mia alunna (che tra l’altro va anche bene a scuola): “Non mi piace più venire a scuola, ma si tratta di un ‘non piacere’ che non reputo normale perché tutte le mattine (o almeno la maggior parte) SPERO che succeda qualsiasi cosa (bella o brutta che sia) che mi impedisca di poterci venire. Mi sento sopraffatta da tutto e mi sento sbagliata perché non riesco, come fanno molti altri, a vivere serenamente nonostante la scuola. Mi sembra quasi di ‘vivere’ solamente nei giorni di festa perché i giorni scolastici sono diventati semplicemente un continuo ripetersi del giorno precedente”.

Come si fa – mi sono chiesto – a “passare ad un altro punto all’odg senza sentirsi almeno feriti da un messaggio come questo? Come si fa a non mettersi in discussione di fronte ad una ragazza che avverte sulla propria pelle quanto sia alienante un modello di scuola che replica la produzione in serie? Basta mandarla dallo psicologo della scuola? Basta darle una pacca sulla spalla: “vedrai che passerà”?

Non è censurabile il desiderio di essere riconosciuti per quello che si è, anche con le proprie fragilità che, in un modello “performante”, ci fanno “sentire sbagliati”, mentre si ha solo avuto il coraggio di essere sé stessi e di averlo confessato davanti ad un altro.

E comunque si può stare vicino ai ragazzi anche nel lavoro quotidiano in classe. Sono loro stessi che ammettono che quando si trovano di fronte un insegnante appassionato non possono più fare finta di nulla. Quando dico “appassionato” non intendo solo un insegnante che gode per quello che ha studiato o sa (oso: alla Barbero), ma che quello che ha studiato e che sa lo interroga come uomo ancora oggi dopo che per trent’anni di docenza ripete sempre le stesse cose, e comunque ripetendo sempre la stessa cosa non è mai la stessa cosa (ma magari ne parleremo un’altra volta). I ragazzi, senza dirlo, ci fanno capire se piace o no stare con loro dentro una proposta seria, che può essere anche quella di un aperitivo mensile a fine settimana scolastica in cui si parla a ruota libera, ma dove domina la domanda: “come va la vita?”

Da ultimo, per non dare il destro a travisamenti delle mie parole: 1) le regole e gli strumenti istituzionali ci sono e ci vogliono, ma mi chiedo fino a che punto siamo coscienti che essi restano l’estrema propaggine di un’emergenza umana che necessita innanzitutto di essere abbracciata anche carnalmente; 2) tutto quello che ho scritto ha valore innanzitutto come mio esame di coscienza personale. Introdurre in quello che faccio tutti i giorni un punto critico per costruire è ciò che mi serve per non stare mai tranquillo.

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