Un punto su cui si registra larga convergenza in materia di miglioramento scolastico è facilmente individuabile nell’autorevolezza della leadership e cioè nell’azione delle persone che ricoprono i posti apicali dell’organizzazione scolastica: il dirigente e i suoi più stretti collaboratori, i responsabili dei dipartimenti disciplinari e quanti altri, a vario titolo, hanno compiti di orientamento e di funzionamento scolastico. La leadership autorevole è generalmente considerata un fattore decisivo. Non sarebbe esagerato sostenere che la qualità di una scuola dipende in gran parte dalla competenza e dalla “passione educativa” del dirigente e del suo staff e, come si dice un po’ genericamente, dalla capacità di creare e di fare “squadra”.



Non voglio tediare il lettore con lunghe citazioni di studi, ricerche e testi che hanno portato a questa constatazione, a partire dalle pionieristiche riflessioni di Matthew B. Miles della metà degli anni 70 che per primo sollecitò l’adattamento delle scuole alle teorie dello sviluppo organizzativo, sottolineando la centralità della leadership quale volano per la qualità della scuola e, contestualmente, ponendo una pietra tombale sulla concezione puramente amministrativo-burocratica della funzione dirigenziale (un riferimento tutto nostrano: la fine del preside di liceo di gentiliana memoria).



Da quelle ormai antiche proposte scaturirono due principali interpretazioni della leadership. Una prima lettura fu collegata ad assicurare soprattutto l’efficienza del funzionamento scolastico. In questa direzione si mosse, almeno in una prima fase, il movimento della School Effectiveness Research i cui ricercatori furono accomunati dall’impegno di trovare indicatori in grado di realizzare sistemi di accountability affidabili e di predisporre le modalità organizzative più efficaci perché la scuola fosse posta nelle condizioni migliori per innalzare il rendimento degli allievi. Notevole fu anche l’attenzione rivolta alla valutazione: i dati grezzi rilevati statisticamente andavano scomposti ed esaminati in modo da cogliere l’effettivo andamento scolastico e intervenire là dove fosse necessario.



Le “scuole efficaci” così concepite furono oggetto di una pubblicazione dell’Ofsted del 1995, Key Characteristics of Effective Schools, che ebbe larga influenza: alla leadership erano affidati compiti di tipo manageriale-organizzativo con l’ingresso nelle scuole di un linguaggio che in molti casi risentiva di un’impronta produttivistica.

Un seconda interpretazione della leadership, senza ignorare gli aspetti organizzativi, si mosse invece nella direzione di “rompere la scatola nera” dell’azione didattica allo scopo di cogliere l’incidenza dell’insegnamento sulla qualità del rendimento degli alunni. Jaap Scherens e i suoi collaboratori attivi nell’Università di Twente in Olanda – sono questi gli studi più noti anche in Italia – si diedero per obiettivo di documentare quali fattori funzionassero più di altri per raggiungere i traguardi delle scuole migliori. Fu stilato un vero e proprio protocollo con sei processi di istituto affidati alla responsabilità della dirigenza: l’importanza attribuita dalla comunità dei docenti al profitto scolastico, l’accordo sul programma da svolgere, la capacità dei docenti di lavorare in gruppo, l’impegno a valutare frequentemente gli allievi, la messa a punto di strumenti valutativi affidabili, la creazione di un buon clima. Questo insieme di iniziative avrebbe dovuto rendere più efficace l’azione dei docenti.

Le modalità in parte diverse di concepire la leadership scolastica in funzione del miglioramento (una più managerial-organizzativa, l’altra più attenta alla qualità dell’insegnamento; in uno studio del 2005 Harold J. Leavitt ha elaborato a tal proposito le categorie dei “sistematori” e degli “umanizzatori”) si sono gradualmente integrate, tenendo conto l’una delle esigenze dell’altra. Se efficacia e miglioramento non si possono disgiungere, bisogna anche aggiungere che il loro incontro  è intrecciato con fattori che non dipendono dalla singola scuola, ma la cui influenza talvolta incide in modo rilevante come, ad esempio, le condizioni di vita locali, la stabilità del corpo docente e della stessa dirigenza, i contesti sociali, le difficoltà, in taluni casi, delle scuole a “farsi accettare” in quanto è purtroppo diffusa, in alcuni ambienti, la convinzione che “tanto la scuola non serve”. Su questo punto ci fermiamo a questa breve e sommaria annotazione perché il discorso ci porterebbe molto lontano e forse anche fuori tema.

Precisate, dunque, le ragioni storico-teoriche della centralità della leadership nel miglioramento scolastico resta naturalmente da chiedersi quali caratteristiche essa debba avere. Ma su questo punto esistono numerose scuole di pensiero che dipendono da opzioni vagamente ideologiche, da interessi corporativi o dalla semplicistica convinzione che basti importare modelli collaudati in realtà culturali e sociali molto diverse dalla nostra e, dunque, di difficile trasferibilità (da tutti si può imparare, sconsigliabile copiare senza mediare). Angelo Paletta, uno degli studiosi italiani che più ha studiato il problema, è giunto alla conclusione che “non esiste unanimità di vedute su quali forme di leadership fanno la differenza (stili), su come differenti forme di leadership contribuiscano al miglioramento delle scuole (processi), su come misurare l’efficacia della leadership”.

La conclusione è tuttavia molto semplice: pur in un quadro teorico assai variegato è evidente che se non disponiamo di dirigenti scolastici capaci di affiancare con autorevole discrezione i docenti nel loro lavoro sarà difficile instradarsi sulla via del miglioramento. Concludo con un sommesso invito: sarebbe già tanto se il ministero assicurasse (sindacati permettendo) una certa stabilità di permanenza in una sede evitando, specie nelle scuole più fragili, il continuo cambio di direzione. Una cosa è certa: senza stabilità e continuità non c’è miglioramento.

(4 – continua)

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