Anni fa una mamma, cui avevo esposto le gravi lacune del figlio nell’esposizione scritta, per nulla preoccupata che egli non potesse essere in grado in futuro di scrivere correttamente un curriculum di lavoro, mi rispose: “Pazienza, vorrà dire che userà il telefono”. Sembra una barzelletta. Non lo è, ma in qualche modo quella mamma anticipava la scena che si presenta oggi ai nostri occhi: saper scrivere bene, anzi semplicemente “scrivere” non è più necessario. È una rivoluzione epocale che ribalta secoli di storia. Sotto traccia lo ha dichiarato  anche il ministro all’Istruzione Patrizio Bianchi confermando l’analoga decisione presa un anno fa dal suo predecessore (di cui è stato non per nulla collaboratore): tanto all’esame di terza media quanto alla maturità 2021 sono abolite le prove scritte.



Si tratta ancora una volta di una decisione provvisoria suggerita dalle circostanze pandemiche, ma è noto che in Italia il provvisorio tende per sua natura a diventare definitivo (e non il contrario: vedi le continue miniriforme che ogni ministro – egli si provvisorio nella precarietà delle nomine – si sente in dovere di introdurre appena nominato). Dunque solo prove orali, accompagnate da un elaborato (anche, si badi bene, in forma non scritta giusto per ribadire il concetto, assegnato dal docente su argomenti diversi alunno per alunno e che lo stesso docente avrà il compito di seguire passo passo. Col risultato che non sarà più un elaborato dell’alunno, ma del docente o di chissà chi).



Dunque neppure matematica e lingua straniera scritta, discipline che però potranno venire recuperate durante l’orale. Rimane fuori dalla porta tout court solo l’italiano scritto. Mentre non speriamo più in una reazione del corpo docente o dal sindacato, impegnati entrambi a chinare la testa davanti ad ogni volere calato dall’alto, attendiamo almeno una presa di posizione del mondo intellettuale, scrittori e non solo, come già fecero quando – qualche anno fa – il ministro provvisorio di turno abolì la traccia storica alla maturità.

Adesso che invece le tracce sono state abolite tutte insieme, cosa accadrà? Temiamo, nel complesso, di assistere al collaudato ossimoro del silenzio assordante che sempre circonda il sistema scolastico italiano. Meno compiti da svolgere, meno compiti da correggere. Più in fretta si fa, prima si chiude. Messa così, la faccenda ha una sua logica: dato che gli esami conclusivi dei due cicli di studi sono diventati una mera consuetudine burocratica senza corpo né anima, senza nemmeno più quel poco di ansia da prestazione che li ha accompagnati sin dalla loro nascita, perché insistere ancora sulla loro qualità? Perché riempirli di un valore culturale perduto da anni? Meglio, al contrario, svuotarli di ogni significato reale, tenerli in vita giusto solo per rispondere ad un mero obbligo di legge.



Circa la necessità, che a questo punto chiameremmo urgenza, di abolirli una buona volta evitando tutta l’ipocrisia che li circonda, abbiamo già scritto da queste colonne. Vogliamo, qui, ribadire tutta l’amarezza di una decisione che lascia allibiti. Anzitutto per le motivazioni: se nell’anno del primo lockdown potevano forse esserci ragioni di carattere pratico legate appunto alla circolazione del virus (smentite, pochi giorni dopo la fine degli esami, dalla corsa in massa alle vacanze degli stessi alunni che avevano svolto gli esami da casa), ci si chiede ora cosa impedisca di mantenere in vita gli scritti. Il ministro non l’ha detto. Ma il peggio è che, nel prendere questa decisione, il governo ha lanciato in modo surrettizio un’idea chiara: scrivere non è più necessario. Nell’era di internet, degli sms, delle mail, del cellulare e del pc sempre connessi, vergare un pensiero sulla pagina bianca – fosse pure virtuale – è diventato un lusso o, per meglio dire, un esercizio superfluo. Un po’ come dipingere, scolpire, cesellare, suonare. Un po’ come meditare, riflettere, guardarsi dentro. Operazioni che richiedono tempo e coraggio e che non hanno un risvolto pratico, concreto. Si scrive ormai solo lo stretto necessario per comunicare una necessità materiale. Al massimo, come suggerì profeticamente quella mamma trent’anni fa, si telefona.

Dunque si può benissimo uscire dalla “scuola di base” senza possedere le basi dell’espressione scritta (e, spesso, nemmeno di quella orale: le due cose procedono non di rado a braccetto) e dalla scuola media superiore senza la necessità di saper elaborare una riflessione su un foglio di carta, pronti lo stesso (pronti davvero?) per andare all’università, dove peraltro organizzano corsi di scrittura per cercare di fronteggiare l’incapacità di stendere una tesi di laurea, o entrare nel mondo del lavoro (dove non c’è quasi mai necessità di scrivere, dunque…).

Non si capisce, a questo punto, perché si debba perseverare nella tradizionale suddivisione oraria delle materie, per cui a quelle letterarie viene assegnato un monte ore settimanale superiore a quello delle altre discipline. Più logico ribaltare il quadro assegnando dieci ore a tecnologia e due o anche una sola a lettere. Come per educazione fisica o religione. Sempre che sull’onda di sacrificare – l’hanno ribadito sia Bianchi sia Draghi – la scuola al mercato del lavoro non si vogliano abolire del tutto le obsolete patrie lettere. “Come faccio a salvare mio figlio? Il suo cuore curioso, il suo bisogno di conoscenza, l’amore per la bellezza?” mi ha scritto (scritto!) una mamma poche ore fa. Non lo so. Vorrei chiederlo al ministro. Magari gli scrivo.

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