Cosa può fare la scuola per intercettare i bisogni più urgenti dei giovani che le sono affidati, soprattutto quelli a rischio? Noi insegnanti, risponderei, abbiamo la necessità di capire chi siano i giovani che incontriamo ogni giorno nelle classi: tante volte ignoriamo che essi nascondono grandi passioni, interessi, problematiche o disagi che impediscono loro di vivere e approfittare delle opportunità che può dare la conoscenza, la cultura, il tempo che si trascorre insieme in un contesto diverso da quello familiare.
Queste riflessioni mi sono ritornate in mente, come cittadina e come insegnante, alla notizia del recente rinnovo a Catania del Patto tra istituzioni al fine di prevenire e contrastare povertà educativa e criminalità giovanile.
Come cittadina ho seguito con interesse e ammirazione il ventennale lavoro del giudice Di Bella già attraverso il suo libro Liberi di scegliere, poi messo in scena dalla Rai nel 2019, per far conoscere in modo più capillare alcune realtà della ’ndrangheta calabrese e far comprendere che in tanti ambienti la libertà di scelta di tanti, soprattutto ragazze e ragazzi, non è un’opportunità reale.
Nel 2020, poi, il giudice Di Bella è stato trasferito a Catania come presidente del Tribunale per i minorenni, e qui l’ho potuto incontrare in una delle sue tante visite alle scuole che lo invitano per parlare ai giovani. Il dialogo che ha intrattenuto con i ragazzi della scuola in cui insegno (un istituto tecnico industriale catanese) è stato un evento importante, perché attraverso il racconto della sua esperienza è riuscito a far comprendere loro quanto sia desiderabile vivere da protagonisti la propria vita attraverso la scuola, andando fino in fondo alla sete di conoscenza e alle sane passioni che permettono di realizzare la propria persona. Grazie alla testimonianza lavorativa e umana del giudice Di Bella, tanti miei alunni hanno riflettuto sul loro vissuto, e così per non perderne l’importanza abbiamo realizzato e diffuso a scuola alcuni lavori didattici significativi (temi, interviste), uno dei quali è stato poi occasione di incontro tra un alunno e il giudice, che ha voluto conoscerlo e incoraggiarlo personalmente a perseguire gli obiettivi per il suo futuro, all’insegna della libertà e della legalità.
Sta di fatto, però, che troppi ragazzi purtroppo trascorrono le ore scolastiche come una parentesi da concludere il prima possibile durante la giornata, perché non sono guidati a cogliere i nessi tra la fatica dello studio scolastico e la complessa realtà che ci circonda: in questo senso, ogni insegnamento può diventare occasione di una maggiore comprensione o di maggior distacco dalla realtà. Già a partire dai 10-11 anni la maggior parte dei ragazzi vive la scuola esclusivamente come un dovere da espletare, semmai stemperato dall’esperienza – non sempre proficua – della socialità tra pari: ed è anche su questo che fa leva la voglia di non frequentare più la scuola.
Nelle situazioni di disagio, di povertà o di deviazione sociale, inoltre, alla scuola è chiesto di non chiudere gli occhi, ma di farsi carico del percorso di quei giovani particolari con nome, cognome e “difetti”, sfruttando al meglio le possibilità di sinergia con tutte le risorse sociali e le figure professionali possibili.
Mi scorrono nella mente le storie di tanti alunni conosciuti negli anni, che non è stato facile accompagnare nel loro percorso di miglioramento o di riscatto sociale, soprattutto dove è mancata una certa dose di ascolto, di solidarietà o l’intervento da parte delle istituzioni pertinenti, compresa la scuola. Altre storie, invece, sono state segnate in positivo dall’incontro con insegnanti, compagni e volontari che si sono presi cura fin nei dettagli più particolari delle vite di quei ragazzi che – senza averne alcuna colpa – vivevano situazioni di svantaggio.
La scuola con tutti i suoi limiti, nell’emergenza educativa dei nostri tempi, rimane in alcuni casi l’unico soggetto che può prendersi cura dei giovani, il luogo in cui essi, grazie alla dedizione e al rischio educativo di tanti operatori, docenti ma non solo, possono riscattarsi da tante storture della nostra società, che spesso produce scarti umani.
Io in questi mesi, all’interno della stessa classe numerosa di 28 alunni, sto assistendo all’evoluzione diversa delle storie di due ragazzini di circa 14 anni: l’uno, pur arrivato da pochi mesi in Italia, sta compiendo un percorso faticoso ma gratificante e arricchente, poiché oltre al supporto di docenti e compagni può contare sull’aiuto di un doposcuola gratuito e sulla spiccata solidarietà dei volontari che lo seguono; l’altro, che non ha trovato un aiuto simile, è consapevole delle occasioni perdute, ma fatica ancora ad affidarsi alle cure dei pochi adulti che possono dargli una mano per migliorare la sua esistenza.
E allora, come cittadina e come insegnante, guardo con speranza al nuovo accordo tra le istituzioni siglato a Catania che, grazie all’acutezza del giudice Di Bella, costringe le famiglie ad agire concretamente per offrire ai propri figli il sacrosanto diritto all’istruzione, cioè a quel tempo scuola in cui per loro è possibile – anche se non scontato o sicuro – sperimentare circostanze reali di cambiamento e di ristoro per le ferite che si portano dentro.
E da insegnante continuo a mantenere come mi è possibile un’attenzione a 360 gradi verso tutti gli studenti; continuo ad approfondire, realizzare e diffondere pratiche efficaci di insegnamento e infine continuo a cercare, dove necessario, azioni di sinergia con altre forze del terzo settore che offrono, tra mille difficoltà, opportunità concrete a chi si affida loro.
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