I settanta alunni delle classi quarte della scuola primaria sono radunati nella biblioteca della scuola, tutti in cerchio, con i loro maestri. In mezzo il vecchio prof chiede attenzione per la spiegazione del gioco. Una roba che si faceva all’oratorio tanti anni fa, rivisitata e corretta: sacco pieno! diceva il prete e i bambini si sedevano o si rannicchiavano a terra; alle parole sacco vuoto! invece, si mettevano belli dritti in piedi. Lui, il prof Giuseppe chiamato lì per una lezione sulla poesia, dice invece semplicemente: giù! E tutti si devono alzare; su! e tutti si devono sedere. Fare il contrario di quanto viene ordinato, insomma. Ma bisogna stare attenti: ascoltare con attenzione, perché su e giù si confondono. Bisogna anche guardare, perché a un certo punto Giuseppe non dice più nemmeno su e giù, ma alza le braccia o le abbassa.
È una strage, rimangono pochi in gioco e poi, all’ennesimo ordine, tutti insieme vengono eliminati. Nemmeno un vincitore. I ragazzi sono un po’ delusi, ma bisogna concentrarsi, riprendere la lezione. Chi fosse entrato in biblioteca in quel momento si sarebbe chiesto cosa potesse c’entrare un gioco così con la riflessione sulla poesia che era stata chiesta al professore. Lui era arrivato chiedendo per tempo di stampare i testi di Whitman, Rilke, Mansfield, Quasimodo provocando non poche perplessità nelle maestre: roba difficile, poco adatta ai ragazzi delle quarte e delle terze della primaria.
Ma Giuseppe le aveva rassicurate e adesso, dopo un’ora di incontro e dopo quel su e giù in cui erano stati eliminati più velocemente dei loro alunni, avevano capito che dovevano avere altre preoccupazioni. Whitman aveva aperto le danze: “Credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle,/ e ugualmente è perfetta la formica, e un granello di sabbia,/ e l’uovo dello scricciolo,/ e una raganella è un capolavoro dei più alti,/ e il rovo rampicante potrebbe adornare i salotti del cielo,/ e la più stretta linea della mia mano se la può ridere di ogni meccanismo,/ e la mucca che rumina a testa bassa supera ogni statua,/ e un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti”.
Ma come, si saranno chiesti alunni e insegnanti, questo qui è venuto per spiegarci cos’è la poesia e ci legge una cosa che parla dell’erba, della raganella, della formica e dello scricciolo? E dove stanno le rime? E dove sono i sentimenti e tutte quelle robe lì?
Giuseppe allora ha dovuto constatare di essere ignorante e bisognoso di informazioni. E i ragazzi si sono lanciati, elencando strofe, rime, sillabe, figure retoriche e altre malattie del genere. Non si è perso d’animo e ha chiesto che cosa avessero fatto per arrivare lì, nella biblioteca: abbiamo fatto l’appello in classe, siamo scesi dal primo piano lungo le scale, siamo entrati qui e ci siamo seduti ad aspettarti. Bene, dice Giuseppe. Questo mi interessa. E li ha invitati a tirare fuori il foglio con i testi, a seguire la sua lettura de I limoni di Montale. Il suo cavallo di battaglia, la sua spalla ideale.
Certo, qualche parola difficile, ma vedrete che non siamo noi che dobbiamo spiegare la poesia, ma è la poesia che spiega noi, il mondo. E anche la poesia. E lo farà in modo inaspettato: con parole che sono immagini. O meglio con delle parole che dipingono le cose. Come se il poeta in realtà fosse un pittore, o meglio ancora un po’ come se fosse un regista: prende in mano la sua telecamera e ci accompagna a vedere delle cose.
Immaginiamolo così, allora, Montale: come un regista che ci guida a guardare quello che lui sta vedendo dentro il suo obiettivo. S’infervora Giuseppe, arrotola il foglio con su le poesie e lo tiene come un cannocchiale. Montale dice che bisogna camminare. E cercare cose semplici, che non c’è bisogno di nomi complicati.
C’è un moto, c’è un cammino da compiere per entrare nella realtà. Fare poesia è andare incontro, muoversi verso: il pensare poetico si muove dentro il mondo cercando i dettagli, le piccole cose. Bisogna mettersi in viaggio per scoprirlo davvero. E allora: cosa vuole fare la poesia? Cosa vuole fare il poeta? Sarà così diverso da quello che vogliamo fare noi? Non è quello che abbiamo fatto per arrivare qui oggi?
Giuseppe vuole un volontario, si alza Gabriele che con il suo binocolo di carta viene spedito nei corridoi della scuola e su un foglio annoterà quello che vede. Gli altri lo aspettano invidiosi. Lui arriva e impacciato elenca: piastrelle, appendini, giacche, finestre, porte, disegni alle pareti, bidelle e chiacchiere. Tutti li trascrivono sul loro quaderno. Cosa ha fatto Gabriele? Quello che suggerisce Montale, che dice la Dickinson: ha acceso una lampada sulle cose. Perché il compito della poesia è quello di mostrare il mondo, o più semplicemente quello di onorare la presenza delle cose.
Come dice ancora Rilke: “Forse noi siamo qui per dire: casa/ ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra/ al più: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene/ per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,/ mai intendevano d’essere… Tra i magli resiste/ il nostro cuore, come resiste/ la lingua tra i denti/ che resta, tuttavia, tutto malgrado, per lodare.
Vi sembra poco? chiede Giuseppe. Poi riprende la lettura di Montale: bisogna fare silenzio, mentre si cammina nel mondo. Perché se non fai silenzio non ti accorgi delle cose che parlano. O, come dice la Mansfield, “non vedi la conchiglia iridescente che giace eternamente nella profondità del mare e canta silenziosa”.
Ecco, tutti i tasselli si mettono a posto: i testi che sembravano difficili sono diventati gradini utili non solo per capire la poesia, ma per capire che quello che serve per la poesia serve ancora di più per la vita. Devi fare attenzione, ascoltare. Ma è già passata un’ora e bisogna essere realisti: non si può essere concentrati per così tanto tempo a undici anni. Bisogna fare un gioco. Siamo tornati lì, da dove eravamo partiti. Ma anche il gioco diventa una tessera del puzzle che si può costruire insieme.
Poi ci si avvia alla conclusione e c’è tempo ancora per Quasimodo e il suo Specchio: “e sono quell’acqua di nube/ che oggi rispecchia nei fossi/ più azzurro il suo pezzo di cielo,/ quel verde che spacca la scorza/ che pure stanotte non c’era”. La metafora, certo. Ma viva, che graffia il cuore di ciascuno di noi. Impariamo da Quasimodo che tutto quel silenzio, tutto quello stupore, ci aiutano a capire la realtà, e in modo ancora più utile ci fanno comprendere meglio chi siamo. Chi sono io? Cos’è il mondo? Come possiamo vivere dentro questo spettacolo che si apre davanti e dentro di noi? E dove andiamo noi?
Giuseppe non può dimenticare di essere un prof, non può non lasciare un compito. Mica di imparare le rime. Ma di buttarsi nel mondo, di dare un nome alle cose. Come Gabriele in corridoio. Come i ragazzi adesso faranno, aiutati dai loro maestri. Perché è il modo più umano di vivere. È di questa poesia di tutti i giorni che gli insegnanti dovrebbero davvero occuparsi. Anche senza rime.
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