Nadia era una ragazza che prendeva la scuola sul serio, ma ormai era arrivata al punto di non farcela più. Ciò che le chiedevano era sempre troppo e Nadia nella sua mente protestava, ma poi si metteva sempre a lavorare per riuscire a stare all’altezza delle richieste.
Finché un giorno Nadia non ce la fece più. Aveva studiato tutto il giorno, neanche un minuto con le amiche, non un film alla televisione, neppure una di quelle serie di cui andava matta, e la prof le aveva detto che non era sufficiente: quello che aveva studiato non bastava!
Nadia avrebbe voluto reagire, avrebbe voluto spiattellarle davanti le ore trascorse a studiare, ore su ore, ma era rimasta in silenzio masticando dentro di sé la rabbia di quel fallimento che non riusciva a spiegarsi. La prof aveva imperversato, dicendo cose strane su giudizio e critica, su lessico improprio e apprendimento mnemonico. Nadia non aveva ascoltato nessuna di quelle parole. Lei una cosa sola sapeva, di essere stata vittima di un’ingiustizia e la dura legge di quella come di tutte le altre insufficienze era che avrebbe dovuto ristudiare tutte quelle pagine di letteratura.
Quel pomeriggio non era andata a studiare assieme alle amiche al centro di aiuto allo studio, si era allontanata dalla città verso la campagna. Aveva voglia di stare da sola, ma nello stesso tempo questo la faceva male, perché era come mettere le mani nella ferita e farla sanguinare ancora di più. Così si stava demolendo pezzo per pezzo e pian piano si era quasi del tutto autoconvinta del fatto che quella non era la sua scuola, quindi avrebbe dovuto al più presto ritirarsi.
In fondo era solo una materia e avrebbe potuto recuperare, ma quel giorno quell’interrogazione andata male per lei era tutto, e così non riusciva a vedere più nulla.
Al centro, nel frattempo, l’assenza di Nadia aveva preoccupato Beppe, l’insegnante che la stava aiutando in fisica.
“Non è possibile che Nadia non ci sia. È sempre più che puntuale!” aveva ripetuto alle sue compagne di classe che gli avevano spiegato cos’era successo la mattina a scuola.
Beppe aveva capito e si era messo a chiamarla al cellulare, in modo ripetuto, quasi forsennato.
Nadia aveva visto la chiamata ma non aveva voluto rispondere, aveva deciso di continuare ad arrovellarsi nei suoi pensieri.
Beppe allora aveva deciso di scriverle un messaggio. “Tu non sei il cinque che hai preso stamattina, tu vali molto, molto, infinitamente di più.”
Nadia aveva letto quel messaggio, ma per lei erano parole, parole, come quelle della prof la mattina. La sconfitta le bruciava dentro e non aveva energie per reagire.
“Sei a casa? Se no mandami la posizione!” e poi aveva aggiunto “che ti raggiungo.”
Chissà perché, a quel “mandami la posizione” Nadia si era commossa e aveva schiacciato su Google Maps la sua posizione.
Appena Beppe vide dove era la ragazza, prese la macchina per raggiungerla. Non aveva impiegato molto tempo a trovarla mentre camminava assorta nei suoi pensieri su una strada di campagna.
Aveva bloccato l’auto a pochi metri da Nadia, era sceso e le era corso incontro.
Nadia si era impaurita e aveva temuto una ramanzina, una di quelle di cui Beppe era capace spesso, credendo che bastasse un discorso per rimettere in piedi una persona.
Quel giorno Beppe si era lasciato prendere e guidare dal cuore. Aveva visto negli occhi di Nadia la paura che lo aveva incitato a fare quello che stava pensando da quando si era accorto che Nadia era assente. Dopo aver detto a voce alta ma dolce “Nadia!”, Beppe l’aveva abbracciata e lei si era lasciata prendere da quell’abbraccio.
“Andiamo, sì, andiamo al centro” gli aveva detto Nadia, commossa da quel gesto così semplice e umano.
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