Il ministro dell’Istruzione, con gesto gentile, ha inviato una lettera di auguri al personale del Miur, ai dirigenti scolastici, ai docenti, al personale educativo e Ata, agli studenti e alle famiglie. L’incipit è scritto con tono caldo e attento, cercando di arrivare alle menti e ai cuori di tutta la comunità educativa. Il buon inizio però piano piano si dilegua, lasciando il posto, in maniera imprevista e indiretta, all’autodifesa del proprio operato politico. Si parla così dell’arrivo dei fondi europei previsti nel piano Next Generation Eu, ma senza enunciare priorità strategiche. Si parla, poi, di una previsione di spesa per la scuola, grazie alla legge di bilancio, di oltre 3,7 miliardi di euro, senza prospettare una visione di fondo.
La cifra sottolineata nella lettera è imponente, ma fa venire il sudore freddo al solo pensiero di un possibile massiccio acquisto di Stato di nuove bici per docenti attempati, monopattini per studenti e magari lavagne a rotelle per le aule, comode per le pulizie scolastiche o plexiglas speciali e avveniristici per ogni cattedra. A ogni modo, il ministro sostiene che le diverse misure servono “a recuperare un divario ventennale” che purtroppo si è accresciuto negli ultimi tempi.
Azzolina, suo malgrado, però, è figlia di una formazione politica, frutto e, in certa misura, causa di un vuoto educativo–politico, nata col Vaffa Day e giunta in età matura a pensare che la finale di Coppa del Mondo contro il Brasile si possa giocare mettendo in prima squadra non i fuoriclasse, ma i giocatori del Birkirkara, squadra che ebbe ben 29 sconfitte consecutive nel non irresistibile campionato di calcio di Malta. E inoltre torna a ribadire la necessità di riaprire le scuole, senza ricordare i suoi demoralizzanti stop and go, il continuo spostamento delle date e l’incertezza comunicata a tutta la comunità educativa.
Infine, dopo una citazione non argomentata di Aristotele, chiude la sua lettera rivolgendo a sé stessa e a tutti l’augurio di fare sempre più e meglio. Questa conclusione lascia davvero l’amaro in bocca. Non serve, infatti, un volontarismo fatto di sforzi, di impegni e compiti per le vacanze. La crisi pandemica non può essere affrontata da nessuno in modo superficiale. Ciò che accade, infatti, pone una domanda a tutti sul senso della vita e della morte, e su come convivere con il dramma continuando a fare quello che la vita con urgenza ci chiede.
Come intendiamo affrontare queste questioni? Abbiamo chiaro che non vanno censurate, ma vissute fino in fondo? I giovani protestano davanti alle scuole non per un’ideologia politica, ma per una sofferenza esistenziale reale. Ma anche i docenti accusano stanchezza e logoramento per la situazione. Quando la nostra pelle è a rischio – la pelle fisica, la pelle della psiche, la pelle economica e tutto trasuda incertezza – non bastano i miliardi stanziati o una frase per tirarci fuori dall’angoscia. È necessario guardare la realtà in faccia e sentire che cosa significa per uno studente studiare quando il nonno ha il Covid, cogliere tra le righe di poche parole la trepidazione di un collega fragile al suo rientro in classe o il senso di isolamento di un ragazzo disabile per la situazione o lo stupore impacciato dei dirigenti di fronte a incombenze sempre più complesse.
Insomma, la scuola non ha bisogno di pacche sulla spalla, ma di una presenza ideale, certa, vera, e di soluzioni ai problemi, prima che una spiegazione o un pacco di soldi. Si tratta in questo momento di essere casa per l’altro, di essere dimora per alunni e colleghi, anche per chi sta vivendo un sogno staccato dalla realtà, come chi pensava che il problema importante fosse inserire un’ora aggiuntiva di educazione civica.
L’augurio a fare di più e meglio, perciò, non può essere ridotto a un aumento delle incombenze burocratiche, all’uso di nuovi acronimi per addetti ai lavori (Pai, Pia, ecc.) o alla possibilità di accedere a nuovi finanziamenti, ma deve essere rideterminato come segno della necessità di aprire uno spazio di ascolto autentico di tutti i membri di una comunità educativa provata, che ha bisogno non di sogni, ma di una guida solida con una visione educativa adeguata alla grave sfida di questo tempo.