Un istituto superiore di Jesi, in provincia di Ancona, l’IIS “Marconi Pieralisi”, ha proposto l’intelligenza artificiale come disciplina di studio, accanto alle materie tradizionali di italiano, matematica o informatica. In una intervista a Il Fatto Quotidiano i giovani professori che hanno avviato questo nuovo corso spiegano: “Vogliamo dare ai nostri studenti la possibilità di essere competenti su un settore che si sta diffondendo. Nel nostro territorio diverse aziende sono interessate ad avere ragazzi preparati su questo tema”. Per l’anno prossimo le iscrizioni di ragazzi al corso sono raddoppiate.
Nello stesso tempo, un’indagine condotta da SWG per la Gilda degli Insegnanti mostra che la classe docente si spacca riguardo ai rischi e i benefici dell’introduzione di IA nel mondo educativo scolastico: metà degli intervistati (quasi tutti over 55) sono contrari, l’altra metà (soprattutto under 35) si è dichiarata favorevole.
Da una parte, come racconta Alberto Chierici, ricercatore che ha lavorato in Tesla, alla rivista Tracce, “oggi l’IA afferma di ‘rivoluzionare’ l’educazione. Dagli algoritmi di apprendimento personalizzato ai sistemi di valutazione automatizzati, promette efficienza e un’esperienza educativa su misura”; e non dobbiamo nasconderci che “abbiamo programmi per computer che sono più divertenti dei nostri insegnanti e sono più efficienti ed economici nell’insegnare la matematica o la storia ai nostri figli”.
Umberto Galimberti invece celebra i funerali dell’uomo che non è più soggetto della storia, ma ormai a servizio lui stesso della tecnica; molti lo seguono temendo la sempre più accentuata “spersonalizzazione” che la tecnologia, l’informatica e, ancor più, l’IA possono portare nel mondo scolastico e, in generale, nella cultura.
Certamente è tempo che la scuola prenda in considerazione il mondo dell’IA, almeno per un dovere di consapevolezza. Se l’educazione ha il compito di introdurre alla realtà, della realtà fa parte anche questo settore sempre più presente e influente. La scuola non può far finta di niente, quando già i ragazzi, da tempo, hanno scoperto ChatGpt prima di noi adulti e lo sanno usare molto meglio.
Occorre tener ben presente però che il nucleo fondamentale dell’educazione non è l’uso di strumenti sempre più fantasiosi e veloci. Essi rimangono pur sempre strumenti, e come tali vanno insegnati; non come materia a sé – proprio perché strumenti –, ma integrati nei percorsi classici. Anche per il fatto che di solito le riorganizzazioni burocratiche delle scuole e dei loro programmi ministeriali sono ben più lente dei rapidissimi cambiamenti che avvengono nel panorama tecnologico.
Ma l’essenza dell’insegnamento va ricercata sempre nel rapporto tra l’adulto e lo studente. È soltanto all’interno di questa relazione che si sviluppa lo spirito critico del ragazzo, la coscienza del proprio io; quella capacità di riconoscere ad esempio ciò che deriva da una produzione dell’IA rispetto all’espressione libera ed ispirata di un soggetto.
Lo stesso Chierici afferma che in un workshop con insegnanti che preparavano una lezione, ha invitato gli alunni “a indovinare cosa fosse frutto del loro lavoro e cosa invece dell’IA. È stato evidente che, indipendentemente dall’utilizzo di ChatGpt, l’arte dell’insegnamento trascende qualsiasi strumento”.
Come ogni strumento, anche l’IA va usata in modo utile, per questo è importante che ci sia un adulto che accompagni nelle sue strade: noi pensiamo sempre alle tecniche artificiali come dispensatrici di risposte, dimenticando invece che la parte più importante e influente nell’uso di tali strumenti è quella di saper porre le domande.
Ecco, chi sa porre le domande giuste, chi sa cercare il vero significato degli eventi, se non un soggetto creativo e critico, che usa e non è usato?
Come scrive il teologo Julián Carrón: “l’io, l’uomo, è irriducibile alla gabbia della tecnica (…). È interessante notare che più avanza la cultura della tecnica e più emerge tale irriducibilità: la tecnica non è in grado di sopprimere l’esigenza di significato. Anzi il deserto che la tecnica crea la provoca, perché spinge l’uomo a prendere atto della sua vera natura, del suo vero bisogno…” (J. Carrón in Credere, pag.66).
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