Dire che a scuola bisognerebbe fare come allo stadio è frase che, presa alla lettera, potrebbe suscitare, e non senza ragione, qualche perplessità. Anche perché – in certe aule, in certe scuole – scene da stadio ci sono già, con tanto di hooligans scatenati, e lo spettacolo non è dei più entusiasmanti. Ma qui ci si riferisce ad altro.



Girano sul web, ormai da tempo, due video, ambientati proprio negli stadi.

Ci mostrano due ragazzini che seguono la partita insieme a degli adulti; fin qui, nulla di eccezionale, dunque, se non il fatto che questi due bambini sono ciechi, sordi, autistici…

Silvia Grecco è la 56enne mamma di Nicholas, che ha 12 anni ed è super tifoso del Palmeiras, una società sportiva brasiliana di San Paolo, fondata da immigrati italiani nei primi anni del 900. Nel video si vedono madre e figlio allo stadio, entrambi orgogliosamente vestiti con la maglietta verde della squadra. Silvia racconta la partita a Nicholas, che non ci vede ed è anche autistico, accostandoglisi ad un’orecchia. Non è una professionista, lo ammette, e al figlio descrive anche il colore delle scarpe o i look bizzarri dei giocatori, e non tralascia qualche apprezzamento pesante sull’arbitro; Nicholas, così, “vede” la partita. Silvia e Nicholas hanno fatto storia e la Fifa li ha premiati, meno di un mese fa, alla Scala di Milano, con il “Fan Award 2019”.



A Bogotà, in Colombia, gioca invece l’Independiente Santa Fe. Anche lì, allo stadio, han girato un breve video: si vede un bambino tifoso, lo chiameremo Simón.

Simón non ci vede e non ci sente, e la partita la segue dando le spalle al campo: di fronte a lui, però, c’è César Daza (educatore, interprete, insegnante?) che accompagna le mani del piccolo su una riproduzione del campo in cartoncino. Muovendo velocemente le dita di Simón sul rettangolino verde, César gli comunica i movimenti dei giocatori, i tiri, le parate, le ammonizioni, le espulsioni, il gol, se c’è. E se il gol c’è, come in tutti gli stadi, si balza in piedi, ci si abbraccia, si esulta.



Per questo, a scuola, bisognerebbe fare come allo stadio, come in questi stadi.

Si dice spesso che, agli alunni, bisogna insegnare a pensare, a ragionare.

È vero, ma solo in parte: bisogna, innanzitutto, insegnare a conoscere. Il pensiero, infatti, “può non fare i conti con la realtà e costituirsi come ideologia. La conoscenza, invece, è esperienza totale dell’oggetto”. A dirlo era uno che qualcosa, di educazione, sapeva: don Luigi Giussani.

I pensieri di Nicholas e Simón, come preziosi tesori, sono chiusi in scrigni ardui ad aprirsi, e chissà se mai li potremo apprezzare fino in fondo. Meno che mai glieli potremo insegnare, forgiare. E così per i pensieri di Leopardi, di Moore, di Stravinskij.

Ma una partita di calcio – o una poesia, una scultura, una sinfonia – ci sono, lì, reali e concrete, che ci aspettano: prima di ogni pensiero, a Nicholas, Simón e a tutti i ragazzini del mondo possiamo indicarle, mostrarle, descriverle, farle conoscere. Radicandosi sulla conoscenza delle cose, anche il pensiero verrà fuori sano.

Il rischio, oggi, per i nostri ragazzi non è tanto la perdita della capacità di pensare, ma la perdita del rapporto col mondo, con le cose, con gli uomini.

Lo aveva ben compreso quel genio sorridente di Chesterton: “La ragione usata senza radici… è un ragionare a vuoto… Se vi mettete a discutere con un pazzo, è estremamente probabile che avrete la peggio, perché la sua mente si muove più velocemente, in quanto non è rallentata dalle cose che fanno da contorno all’assennatezza. Non è ostacolata dal senso dell’umorismo né dalla carità, o dalle mute certezze dell’esperienza”.

Le “mute certezze dell’esperienza”: per un corso di formazione agli insegnanti, Silvia e César io li chiamerei…