Con il nuovo anno scolastico, in quasi tutti i cantoni svizzeri, gli smartphone sono proibiti a scuola. In alcuni cantoni il loro uso è vietato e devono essere riposti spenti nello zaino, in altri devono essere consegnati a inizio giornata e possono essere ripresi solo all’uscita dall’istituto scolastico. Le disposizioni adottate non suscitano particolari opposizioni: sono applicate senza troppi sforzi dagli studenti, e gli insegnanti ne vedono gli effetti positivi. Può sorprendere, ma abbastanza facilmente gli allievi senza il telefonino in mano si mettono negli intervalli a parlare fra di loro, a discutere e a giocare. In classe sono meno distratti, anche solo dalla segnalazione dell’arrivo di una notifica o dall’ansia provocata dall’attesa di un messaggio, ma sono anche più intraprendenti.



Gli esempi potrebbero essere molti. Se l’insegnante propone la ricerca del significato di una parola usando il vocabolario cartaceo, non è difficile capire quante relazioni conoscitive si aprono rispetto a una ricerca fatta con un telefonino; a cominciare dalla scoperta di un ordine, quello alfabetico, anzitutto, e poi delle parole contigue con la stessa radice che si riferiscono a un contesto. Così si possono intuire i vantaggi dell’osservazione di una cartina geografica o storica su un atlante piuttosto che su uno schermo. Queste operazioni richiedono più tempo, ma sappiamo che anche una (leggermente) prolungata permanenza nell’impegno aiuta a dare più spazio fisico e mentale ai concetti e aiuta la comprensione. Inoltre, come diceva uno scienziato, la simulazione della caduta dei gravi al computer riesce sempre. Se però passa l’idea che non è così importante osservare la caduta dei gravi nella realtà, hai perso la possibilità di entusiasmarti per un fenomeno reale. C’è un ordine delle cose, convenzionale o naturale, e un’apertura alla realtà che ci sorprende e in cui scopriamo la nostra esistenza.



Nell’atteggiamento di quegli studenti che, come mi è capitato, ti confessano che senza regole non sarebbero capaci di rinunciare al telefonino a scuola, ma sono contenti di poterne fare a meno perché è più bello parlare e conoscersi, sembra che ci sia un naturale risveglio di una dimensione umana che la macchina, con tutta la sua potenza, non sa gestire. C’è da sperare che quel cambiamento antropologico indotto dal massiccio affidamento al digitale non sia ancora compiuto. Sta a noi, scrive il filosofo e psichiatra franco-argentino Miguel Benasayag, “costruire esperienze e pratiche di ibridazione con la tecnica che rispettino il vivente e la cultura”.



Ma qui sta il punto. Gli smartphone sono solo uno degli aspetti che possiamo rilevare anche a scuola di un nuovo modo di concepire il rapporto fra conoscenza e informazione nell’epoca digitale (in cui perfino gli individui sono diventati profili definiti da informazioni). Su questi aspetti la scuola dovrebbe interrogarsi!

Le macchine sono parte della nostra realtà e indubbiamente sono funzionali rispetto a molti obiettivi. Gli allievi sono cresciuti in un ambiente tecnologico. Non si tratta di essere a favore o contro le macchine, ma dobbiamo sapere che noi non siamo macchine, non funzioniamo principalmente sulla base della capacità di elaborare informazioni e dati. Avere esperienza e avere informazioni sono due cose diverse. Quando valutiamo insegnamento, apprendimento e educazione scolastica attraverso la griglia di una serie di competenze (comprese le soft skills) adottiamo un approccio funzionalistico che è proprio quello che regola le applicazioni digitali.

Prendiamo una di queste competenze (uso il linguaggio del piano di studio del Canton Ticino che l’omologazione OCSE ha reso universale): “Sviluppo personale”; se ne dà “Definizione, Significato della competenza, Risorse e dimensioni chiave della competenza”; si elencano “Manifestazioni di competenza e processi chiave, Interpretazione, Azione, Autoregolazione”, ecc., ovviamente sono contemplati anche i “Criteri di apprezzamento della competenza” [leggi valutazione].

C’è tutto quello che occorre per impostare, in una prospettiva funzionalistica, la soluzione del problema dello “sviluppo personale”, secondo schemi modellizzati. A quale prezzo? Riducendo la realtà a formule, processi, risultati; espressi – aggiungo – in un linguaggio disumano, tecnico, privo di mondo e perciò incomprensibile anzitutto per gli insegnanti che vivono quotidianamente una relazione non solo con i loro allievi, ma anche dentro circostanze di vita che sono sempre personali e comunitarie.

Per un’esperienza umana nella scuola abbiamo bisogno proprio di questo spazio personale e comunitario in cui sviluppare la passione per il sapere, vivere le proprie conquiste, ma anche le proprie fragilità; quelle debolezze, quei difetti che la macchina non ammette; abbiamo bisogno di vivere le nostre fragilità non mascherate dalle tecnologie, in relazioni autentiche con altri e con altro, secondo quell’esigenza di senso con cui stiamo al mondo.

Proprio questa condizione è sempre più censurata e autocensurata. Pur nella visione di una scuola aperta a ogni diversità e a ogni disagio, la negatività non è accettata e prevale un conformismo di facciata che ostenta possibilità per tutti, fiducia nel futuro e successi.

Nei programmi scolastici il riferimento a “Tecnologie e media” (benché non si manchi di sottolinearne l’importanza di un uso critico, creativo e consapevole – sic) è massiccio e trasversale, e si presenta in tutta la sua efficacia e potenza. Di fatto il pericolo della colonizzazione digitale, da non confondere con l’ibridazione inevitabile e felice di cui parla Benasayag, può facilmente indurre un allievo a pensare che i suoi disagi e le sue fatiche siano inammissibili. Se non funziona qualcosa (non vede i risultati, si sente escluso, diverso, solo) è lui stesso a essere sbagliato.

Penso che la scuola debba interrogarsi non solo sui fattori di disturbo della capacità di agire di studenti e di insegnanti, come dicevo all’inizio, ma che debba soprattutto chiedersi che cosa deve essere e può fare per proporsi come luogo di incontro, di studio, di vero ascolto, di testimonianza, di ricerca comune. Dove e quando si può, eliminiamo le resistenze alle performance, che siano di allievi con disabilità che di allievi cosiddetti ad alto potenziale cognitivo (anche loro non sfuggono a questi stress); usiamo anche la tecnologia per migliorare l’apprendimento. Ma offriamo a tutti una possibilità di fare a scuola un’esperienza della realtà assumendosi con responsabilità e coraggio ciò che accade. Una scuola costruita su obiettivi e competenze in una prospettiva utilitaristica tende a trascurare l’esperienza, a privatizzare il vissuto del soggetto che non si ritiene più capace di star di fronte alle domande e alle aspettative di bene che la realtà suscita e che cercano anzitutto nell’altro e negli altri un confronto, un paragone e una guida.

Termino con un episodio di vita scolastica riportato qualche tempo fa tra le “buone pratiche”. Gli allievi vengono invitati dall’insegnante a stabilire il percorso, usando il cellulare, per recarsi in un negozio di articoli sportivi a Lugano per comperare un regalo. L’operazione riesce. Non solo trovano il negozio, ma anche gli orari di apertura, l’offerta di prodotti, i prezzi, gli orari del bus e forse anche la foto del team di vendita. Paragono questo episodio con una mia esperienza passata.

Il direttore dell’istituto dove ho iniziato la mia carriera di insegnante veniva in classe e chiedeva agli allievi di descrivergli il tragitto che facevano per raggiungere la scuola. Quasi tutti, all’inizio con qualche incertezza e difficoltà, lo sapevano raccontare; certo non potevano disporre all’istante di molte informazioni e dovevano con pazienza riordinare qualche dato impresso nella loro mente, ma soprattutto rifare mentalmente l’esperienza di quel tragitto. Ora, la buona pratica descritta, a causa del divieto degli smartphone a scuola, non è più possibile. Ma l’esercizio proposto dal mio vecchio direttore forse mostra una strada.

C’è una essenzialità formativa e educativa che dobbiamo avere il coraggio di mettere al centro dell’esperienza scolastica, sia sul piano metodologico che dei contenuti, in un contesto di vera accoglienza dell’altro, senza illusioni e senza artifici, ma in cui sia percepibile una vera speranza per sé e per il mondo.

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