In altri paesi – e fra questi molti di quelli le cui scuole eccellono nei confronti internazionali – esistono percorsi universitari dedicati a fare l’insegnante. Al loro interno, si studiano parallelamente tre tipologie di contenuti: quelli disciplinari “teorici” (la materia da insegnare), quelli delle pratiche pedagogiche generali e specifiche delle varie materie (come insegnarla), ed infine quelli relativi al ruolo dell’insegnante come mediatore dei valori e delle norme del vivere civile, cioè come adulto di riferimento che accompagna la crescita delle persone in formazione (svolgendo, per esempio, funzioni di tutor, di consigliere, di orientatore, ma anche di modello agito di persona adulta che vive e lavora secondo i principi che dispensa). In senso lato, anche, tutto ciò che ha a che fare con l’etica professionale. È quel che prima si è indicato come mandato sociale.



Dopo di che, la libertà di insegnamento resta intangibile per quanto attiene i mezzi, ma non si estende all’ambito dei fini. I fini sono assegnati dalla comunità e non sono disponibili per il singolo, ma solo nelle sedi politiche in cui si forma la volontà collettiva.

Scuole universitarie di questo tipo possono essere – e sono, di fatto – a numero programmato: cioè accolgono in ingresso un numero di studenti pari (o lievemente superiore) a quello dei futuri insegnanti, stimato in base alle dinamiche demografiche. Le facoltà generali, come le nostre, che non servono solo a formare insegnanti, non possono applicare lo stesso filtro, perché aprono verso un ventaglio assai più ampio di percorsi lavorativi.



In Finlandia, tanto per citare un esempio sempre richiamato, a queste scuole accedono inizialmente solo studenti diplomatisi dal liceo nel decimo miglior percentile: vale a dire che solo uno su dieci, e solo il migliore, viene accettato. E, partendo da questa base di eccellenza, la scrematura continua nel primo e nel secondo anno, non solo e non tanto sulla base dei risultati accademici, quanto su quella dell’osservazione nei frequentissimi tirocini, per valutare motivazione ed attitudine.

Ad attrarre i migliori studenti verso il lavoro di insegnante non sono tanto gli stipendi, che sono confortevoli senza essere lauti: è il prestigio sociale che circonda la loro figura e ne fa dei membri rispettatissimi della comunità.



La Finlandia non ha improvvisato il proprio successo: come ben ricorda Panebianco, le riforme in ambito scolastico “pagano” venti o trenta anni dopo. E questo è il tempo che è stato necessario in Finlandia per passare da una condizione di paese marginale nel mondo della formazione a paese-guida, stabilmente ai vertici.

L’esempio finlandese – ma non è il solo – ci dice due cose: la prima, che – per migliorare la scuola e la preparazione degli studenti – occorre partire dagli insegnanti, selezionandoli con cura e preparandoli in modo mirato a quel che devono fare. La seconda è che le riforme scolastiche vanno decise ed attuate su tempi lunghi: il che implica che esse siano poste al riparo dalle dinamiche elettorali contingenti e che costituiscano un progetto nazionale, e non quello di una parte sola.

Questa considerazione ci riconduce alla seconda famiglia di cause che avevamo indicato in apertura, quella dell’atteggiamento della politica italiana tutta nei confronti della scuola. Una riforma della formazione iniziale degli insegnanti richiede tempo: ma quel tempo diventa inutile, se nel frattempo si lascia accumulare un serbatoio sterminato di aspiranti che non seguono quel percorso ed inseguono solo le supplenze ed i punteggi, grazie a cui rivendicare ed ottenere, prima o poi, una sanatoria.

Bisogna che, mentre si formano i nuovi insegnanti, si prosciughino le cause che impedirebbero loro di salire in cattedra. Visto che le supplenze non si possono eliminare, le si sterilizzi almeno dei loro effetti secondari. Basterebbe stabilire che non danno titolo a punteggio e che chi non ha seguito per intero il percorso formativo richiesto non salirà mai in cattedra in via permanente. Se necessario, per bilanciare la precarietà strutturale di un simile approccio, si accordi pure a chi svolge supplenze una maggiorazione stipendiale rispetto ai minimi iniziali: sarà il pretium doloris della precarietà. Ma si impedisca loro di nuocere, in buona fede per carità, ai nostri giovani.

Si tratta di centinaia di migliaia di persone e quindi di voti, diretti e dell’ambito familiare: si comprende come nessuna forza politica si senta di regalarli ad altri e si sforzi quindi di corteggiarli. Il Pd – che era in passato il loro partito di riferimento tradizionale – ha pagato un prezzo altissimo alle riforme di Renzi e li ha visti trasmigrare in massa nelle file dei 5 Stelle. Per questo motivo, non si può chiedere a nessuna singola parte politica di far proprio un simile programma.

Si può invece – io credo che si debba – premere dal basso, come opinione pubblica, ciascuno sulla sua forza politica di riferimento, affinché la questione scuola venga affrontata collettivamente, con scelte da cui nessuno si desolidarizzi per i prossimi venti anni almeno. Semplicemente, la questione scuola va cancellata dalle agende elettorali, per essere oggetto di una sessione di studio e di seria riflessione collettiva, che si concluda con un impegno a lungo termine: che, per le ragioni prima indicate, dovrebbe cominciare e fondarsi sul ripensamento della formazione iniziale dei docenti.

È realistico attendersi un tale scenario? Certamente no. Ma almeno se ne abbia coscienza e si dica alto e forte che non si possono volere gli effetti rifiutando di farsi carico delle cause. Se non vogliamo piangere ancora per anni sulle condizioni della nostra scuola e dei nostri giovani, fino a quando non sarà troppo tardi per agire – posto che già non lo sia – occorre un’assunzione collettiva di responsabilità. Non mancheranno certo, nell’agenda politica, questioni su cui dividersi e differenziarsi, a cominciare dall’economia: ma la scuola, almeno quella, dovrebbe essere chiamata fuori e tenuta al riparo. Perché la scuola non è di destra né di sinistra: è dei nostri giovani, è del nostro paese tutto. Ed è quindi un bene che dovrebbe essere e rimanere indisponibile.

(2 – fine)