“Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni, anziché svanire, sembrava farsi più insistente”. Anche quest’anno ho proposto di leggere ai ragazzi delle prime Il colombre di Buzzati e dopo avere lavorato un po’ sul testo per scoprirne insieme la ricca simbologia, ho chiesto loro di scrivermi in forma anonima una breve risposta alla domanda: “hai anche tu un tuo colombre personale, qualcosa che ti attrae e ti spaventa allo stesso tempo”? Due risposte emblematiche della posizione dei ragazzi: “il mio colombre è la morte perché da una parte vorrei sapere se c’è qualcosa dopo e dall’altra ho paura che non ci sia niente e tutto finisca”; “la cosa che più mi affascina è pensare a come sarà il mio futuro, ma poi ho paura di deludere le aspettative dei miei, di non essere all’altezza di quello che mi chiedono”.
Quasi tutte così le risposte e scopri ancora una volta che in questi “ragazzini” che sembrano interessati solo al panino o al calcio, apparentemente indifferenti ai destini del mondo (guerre, ambiente…) come del compagno di classe in difficoltà, si agita la domanda di sempre per un adolescente e che, specialmente oggi, si potrebbe svolgere così: sono al mondo per essere felice o per distrarmi dalle mie domande dedicando tutte le mie energie a realizzare il progetto che gli adulti hanno su di me? Basterebbe ascoltare davvero i nostri ragazzi, non come pretesto per parlare poi di noi e di come è stata la nostra giovinezza allo scopo di fornire qualche scaltra istruzione per l’uso, per rendersi conto che il loro pensiero dominante è sempre quello del destino e di come dare valore al presente che vivono.
Per rimanere alla scuola, se questa domanda non viene finalmente fatta emergere, riconosciuta, seriamente presa in carico, accompagnata nel suo sviluppo, riconvertita in energia di ricerca che passa attraverso tutte le nostre discipline e che diventa esperienza, cioè scoperta di sé; se non la smettiamo tutti di considerare questi ragazzi solo come dei terminali dei nostri astratti progetti didattici, ma come delle persone; se invece di ricorrere a sempre nuovi alibi per disimpegnarci da loro (lo smartphone, il consumismo, la disgregazione delle famiglie, la mancanza di meritocrazia, la società permissiva, etc.) non proviamo ad offrirgli una seria amicizia educativa insegnando la nostra materia, relativizzando se necessario voti e programmi da svolgere, noi ci ritroveremo tra non molto travolti da uno tsunami educativo senza precedenti di cui stiamo già vedendo il segno premonitore nel numero progressivamente crescente di quelli che chiamiamo “ragazzi difficili”.
Sono quegli adolescenti che sempre più spesso incontriamo a scuola e che, diversamente dai loro coetanei degli anni 60-70, non rivolgono il loro disagio tanto verso l’esterno e con violenza, in opposizione al borghesismo della società adulta e a ciò che rappresenta, bensì contro la loro stessa persona perché la ritengono di poco conto e indegna di stare al mondo. Se, come scriveva Pavese, “i suicidi sono omicidi timidi, masochismo invece che sadismo”, questi ragazzi, in diverso modo e grado d’intensità, cercano trepidamente di “farsi fuori”: suicidio vero e proprio, autolesionismo, autosegregazione in casa, gesti estremi in cui sfidano il limite, abbandono della scuola – in curva statistica crescente anche in contesti sociali “normali” – droga, mutismo e sguardi bassi, smartphone come unico strumento di socialità, etc.
Certo quello che ci viene richiesto come insegnanti è un’impresa titanica se ci concepiamo da soli. Esistono però nella scuola italiana realtà di docenti che si aiutano a sostenere attivamente questa responsabilità educativa e che condividendo un ideale di fare scuola corrispondente al vero bisogno dei propri studenti, si interrogano sulla sfida in gioco cercando innanzitutto di capirne meglio i termini per poi tentare modalità di intervento adeguate. È il caso di Diesse, associazione di insegnanti che nella sua recente Convention annuale intitolata proprio Questi ragazzi! Fragili ma ostinati desideri di felicità, ha messo a tema proprio le questioni cui accennavo sopra.
Non penso neanche lontanamente a riassumere la ricchezza degli stimoli ricevuti durante il recente convegno ma, concludendo queste riflessioni, voglio condividere una evidenza che è riemersa in me ascoltando soprattutto le tante bellissime esperienze di insegnanti che partecipavano a uno dei workshop della Convention dedicato alle cosiddette “classi difficili”, che sarebbero poi quelle in cui c’è un numero prevalente di “ragazzi difficili” e che fanno saltare e quasi rendono ridicola ogni programmazione didattica.
Bene, sembrerà una cosa ovvia, ma ascoltando le appassionate testimonianze di questi amici (in alcuni casi dei veri e propri racconti di conversione personale oltre che professionale) e riandando anch’io con la mente a tanti fatti simili accaduti con i miei studenti in questi anni, ho riappreso che l’insegnamento è innanzitutto una questione di “moralità”, cioè di avere interesse per quello che i ragazzi sono e non partire da quello che pensiamo di loro o pretendiamo che facciano per noi. E le “classi difficili” – ma esistono poi delle classi facili? – hanno il potere di svelare la posizione che assumiamo ogni mattina quando entriamo a scuola e sono perciò un dono di Dio per riprendere coscienza della nostra vocazione adulta. Alla fine, sono arrivato a pensare che ogni insegnante dovrebbe avere almeno una classe difficile all’anno o magari sempre la stessa per più anni. Beato chi ne ha più di una.
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