Mettiamola così, facile facile: in Italia c’era una volta (quaranta, cinquanta, cento anni fa) l’insegnante che guadagnava poco perché – diceva la voce popolare – lavorava poco. Diciotto ore in cattedra, tre mesi di vacanze d’estate, un’infinità di “ponti festivi” durante l’anno, posto fisso. Una cosa compensava l’altra. Non so se avesse senso, ma era la convinzione comune.



Oggi che la scuola, tout court, è del tutto un’altra cosa, cambiata com’è nei contenuti e nelle forme, l’insegnante continua a guadagnare poco (è di gran lunga il laureato che incassa uno stipendio inferiore a quello di tutti gli altri laureati, complici avanzamenti di carriera inesistenti) mentre la mole di lavoro è moltiplicata.



Alle famose 18 ore, infatti, si aggiunge un monte-ore settimanale più o meno analogo composto da risme di documenti da riempire e tenere aggiornati alunno per alunno (i coordinatori in particolare, docenti quasi sempre di lettere o matematica), riunioni di classe, di interclasse, di materia, di dipartimento, di collegio, di istituto, coi genitori, con gli educatori, con gli psicologi, corsi di aggiornamento su argomenti tecnici (i più noiosi ed inutili, gratuiti) o che riguardano la propria disciplina (i più interessanti e utili, a pagamento) e quant’altro, la burocrazia – mostro famelico dalla logorroica e perversa fantasia – inventa ad ogni pie’ sospinto. In più ci sono, oggi come allora, i compiti da correggere e le lezioni da preparare. Il posto è sempre fisso ma, a parte la trafila spesso lunghissima per raggiungerlo, molto meno ambìto. Lo stipendio è rimasto più o meno lo stesso: in prossimità della pensione, in media un docente guadagna sui 2mila euro netti. Aggiungiamo che la professione ha perduto presso l’opinione pubblica anche il poco appeal che aveva soltanto mezzo secolo fa e che è aggravata dallo stress legato a bullismo e impreparazione scolastica di base, inesistente temporibus illis, e il cerchio si chiude.



Tutto ciò per cercare di mettere insieme due autorevoli interventi finiti giorni fa sui social a poca distanza uno dall’altro. Ci pare interessante metterli a confronto per tentare di trarne qualche conclusione.

Il filosofo Umberto Galimberti, ospite ad inizio gennaio su La7, attaccava così la categoria dei professori: “Non tutti sono innamorati della scuola e hanno la vocazione dell’insegnamento. In molti sono innamorati solo dello stipendio”. Apriti cielo. In tanti con la coda di paglia hanno respinto l’accusa al mittente, si sono stracciati le vesti, hanno gridato allo scandalo e non parlo soltanto in quella categoria di “docenti sulla carta” (perché in perenne distacco sindacale) che da quando esistono difendono i lavoratori della scuola “a prescindere” e contro il loro stesso interesse. Ho insegnato dieci anni in una media inferiore senza aver mai visto la collega di educazione artistica, che ad ogni mese di settembre inviava un certificato medico plurimensile interrotto dal rientro a scuola solo in estate – così da conservare intatti posto e stipendio – avverso il quale nessuno ha mai avuto il coraggio di opporsi, nemmeno il sindacato, che alcuni anni fa avvallò la decisione di governo per cui chi rimane assente per un giorno o due ha una trattenuta sullo stipendio. Eppure, chi lavora con serietà (e sono tanti) riconosce che l’affermazione di Galimberti è pura verità: la scuola continua ad essere parcheggio a buon mercato di quanti (quante: la maggioranza dei dipendenti è largamente donna) non trovano occupazione in altri ambiti e finisce – non sempre, è chiaro – per adeguarsi obtorto collo.

Il secondo intervento autorevole, almeno per la simpatia del personaggio, è stato del regista e attore Carlo Verdone. Invitato dal Club dei Docenti di Treccani Scuola (eh già, mica dal ministero dell’Istruzione, ci mancherebbe!) ha ribadito il mantra secondo il quale quello del professore “è il mestiere più bello del mondo”, ma aggiungendo che egli vive anche “delle frustrazioni, come l’aspetto economico che non funziona. Se uno prende 700 euro in meno rispetto alla media europea non va bene. Bisognerebbe avere più rispetto per i professori perché sono gli allenatori dei giovani del domani”.

Dunque: il filosofo punta il dito, come si dice in Lombardia, “su la voja de laurà”, sulla voglia di lavorare; il regista “sui danée”, sui soldi. L’una cosa non esclude l’altra, anzi vanno a braccetto. Perché gli insegnanti sono stanchi di sentire ripetere da ogni ministro, politico o intellettuale di turno che la scuola è importante, anzi il fondamento della società e che dovrebbero guadagnare di più quando poi, governi la destra, la sinistra, il centro o chissà chi, le cose non cambiano.

Provò Luigi Berlinguer, ministro dell’Istruzione a fine Novecento, ad introdurre l’equazione “chi più e meglio lavora venga pagato meglio”, ma l’idea fallì ancor prima di nascere perché l’esponente progressista calò la proposta dall’alto ignorando (peccato gravissimo per un ministro nei suoi panni) che insegnare è profondamente diverso che costruire case o evadere pratiche: certo esiste la prof più brava e quella che lo è meno, la più preparata o la più versatile nell’arte della comunicazione, ma alla fine i risultati non possono essere quantificati con un metro preciso. Tanto è vero che da alcuni anni è invalsa la pessima, antidemocratica e antieducativa abitudine di tenere alti i voti di interrogazioni e verifiche scritte in modo da evitare bocciature e così promuovere il buon volto della scuola evitando di incorrere nelle ire di dirigenti e solerti funzionari pronti ad umilianti ispezioni. Del resto non siamo qui per sostenere l’assurda ipotesi che soltanto se meglio retribuito, il docente può fornire risultati migliori: sarebbe come svilire il suo ruolo educativo. Anche se vedersi retribuire con una busta paga al minimo, anche se accompagnata da una bella pacca di incoraggiamento sulle spalle non fa piacere a nessuno.

Dunque? Difficile essere ottimisti, anche perché professoresse e professori dimostrano da sempre di essere poco inclini alle barricate per far valere i loro diritti. Spiace dirlo, ma l’amor di quieto vivere serpeggia fra le cattedre. Pochi giorni fa, durante un collegio docenti di una scuola di primo grado del Nord Italia, la proposta della dirigente di aggiungere otto ore settimanali in Dad, perciò gratis, per non lasciare indietro i colpiti dal Covid in aggiunta alle 18 in presenza, resistendo all’idea di fare lezione in contemporanea, è stata respinta per il rotto della cuffia… Come dire che la professione docente è una missione, è il mestiere più bello del mondo, possiede un fascino d’altri tempi: cosa si vuole di più? Insomma, se ci troviamo in questa situazione per cui il docente è l’ultima ruota del carro, adesso esposto più di tanti altri alla spada di Damocle del Covid, la responsabilità è un po’ di tutti, ma con la differenza che l’insegnante ne subisce più di tutti gli altri le conseguenze.

A Carlo Verdone suggeriamo di dare corso al film sulla scuola di cui egli stesso ha vagheggiato, stando però lontani dagli stereotipi di cui sono piene tante pellicole esistenti sul tema. Ascolti prima gli insegnanti e poi si metta nei loro panni. Siamo sicuri che, giocando come lui sa fare fra comicità ed ironia, ne uscirebbe un capolavoro.