Sono rimasto colpito da un episodio successo a scuola qualche tempo fa. Dovendo sostituire momentaneamente l’insegnante di matematica, ho chiesto a una classe di prima media le proprietà dell’addizione. L’argomento era stato trattato mesi prima, ma mi interessava verificare cosa rimaneva nella loro testa di argomenti un po’ astratti e (apparentemente) fuori dalla quotidianità studiati a scuola.
Risultato da archiviare. Un alunno, però, alza la mano e dice “Basta cercare su Google”. Touché. È vero. Oggi l’informazione passa soprattutto attraverso le piattaforme web. C’è ancora bisogno della scuola?
A questo episodio ho collegato un recente sketch pubblicitario dove un padre chiede ad Alexa, assistente personale intelligente di Amazon, quando fu distrutta Pompei. Lo spot porta il padre indietro nel tempo per chiedere a un passante, che fugge terrorizzato, in che anno fossero. Il passante risponde “siamo nel 79 dopo Cristo, scappa!”, con spiritoso anacronismo. Il padre ritorna così al presente e dà la risposta al figlio. Alla successiva domanda del figlio, a chi fosse dedicato il tempio di Pompei, il padre, con fare furtivo, passa la palla ad Alexa ed Alexa, sempre furtivamente, risponde. Al netto della simpatica ironia e delle imprecisioni storiche, Alexa, adeguatamente perfezionata, può diventare l’insegnante dei nostri figli?
Leggo su Orizzonte Scuola: “Tecnologia informatica e algoritmi potrebbero mandare in pensione tutti i docenti. Non si tratta della riforma di cui tanto si parla, ma di un insegnante virtuale, un avatar in grado di sostituire quelli in carne e ossa. Non si tratta neanche di fantascienza: la sostituzione dell’uomo con il robot potrebbe avvenire anche molto presto, addirittura nei prossimi dieci anni”.
Potrebbe essere l’esito di un fenomeno che ha avuto inizio nei primi anni 50 col pensiero costruttivista. Questo sostiene che il sapere risulta dalla relazione fra un soggetto attivo (lo studente) e la realtà, riducendo la figura dell’insegnante a quella di coach, di allenatore dell’apprendimento, di colui che suggerisce metodologie e strumenti, ma che non trasmette conoscenza. Una figura sostanzialmente marginale. La conoscenza viene acquisita dall’alunno direttamente nel confronto con la realtà per tentativi ed errori. A questo scopo viene incentivato l’uso di piattaforme informatiche e nuove tecnologie, che permettono all’alunno di addentrarsi in settori della realtà non direttamente praticabili.
È ovvio che lo strumento digitale è molto più efficiente nel fornire informazioni rispetto alle limitate capacità dell’uomo. Più memoria, più versatilità, più capacità comunicativa, potendo utilizzare strumenti come video, audio, realtà aumentata; per non parlare delle strabilianti prestazioni dell’intelligenza artificiale.
Cosa rimane di specifico della scuola, di fronte alla marea di informazione che proviene dal web? Lo sguardo dell’insegnante.
Anni fa un’insegnante particolarmente geniale della scuola con cui collaboro ha espresso un concetto che è diventato stile didattico condiviso: “Ti guardo per il bene che sei, non per il problema che poni”.
“Ti guardo”, cioè mi accorgo di te, per me sei una persona importante, la tua presenza mi sorprende, non è banale.
“Per il bene che sei”. Ogni persona è ontologicamente un bene, perché creata, perché amata, perché destinata al bene. Ogni alunno porta in sé un bene, anche se pone un problema, che certo non possiamo ignorare. Ma va guardato per il bene che è e che porta, prima del problema che pone.
La certezza di questo bene, che l’insegnante comunica all’alunno, è la vera molla dell’apprendimento, dell’approccio positivo con la realtà, del desiderio di conoscerla, dell’entusiasmo di poterla comprendere e della gioia di comunicarne la scoperta. Soprattutto in età infantile e pre-adolescenziale lo sguardo dell’insegnante alla ricerca del bene che è in ogni alunno è essenziale. Questo sguardo che fa emergere spesso capacità inaspettate, genialità inespresse, che diagnosi di neuropsichiatri e logopedisti non lasciano sperare.
Questo sguardo non è certo simulabile neppure dalla più sofisticata intelligenza artificiale, perché proviene dal cuore più che dagli occhi, ed è espressione di quella relazione da cui la macchina è necessariamente esclusa: quella trinitaria tra insegnante, alunno, e Chi, amando entrambe, glielo ha affidato.
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