Screditato, a volte deriso, molto spesso furtivamente invidiato, il mestiere dell’insegnante è il più bello del mondo. Fuor di retorica, non c’è nulla che apra la mente e tenga vivi come insegnare. Perché non c’è nulla al mondo che educhi come l’insegnare.

Insegnare educa ad allargare la mente, a spostarti dal tuo schema preconcetto, perché le innumerevoli sfumature dell’umano che hai di fronte ti costringono a lasciar via il già saputo e ad attraversare mari nuovi e inesplorati; educa a coinvolgerti nel mistero senza fine delle vite degli altri, perché sentire la vita come la sente quel ragazzo lì – il più svogliato, il più rabbioso – è un bisogno che ti tormenta anche la notte e mettersi le sue scarpe è riscoprire un po’ le tue: l’inclusione non è uno schema da applicare, ma lasciare che la vita bisognosa di un altro scoppi nella tua e la riaccenda.



Insegnare educa a spostare lo sguardo, ad andare oltre l’apparenza, perché quando fai centro in un ragazzo apri un varco lì dove nessuno era riuscito a penetrare, innescando una valanga di bene di cui tutta la società – a Dio piacendo – saprà poi godere; insegnare educa ad offrire: senza malleverie, senza garanzie, perché darsi per gli altri è la legge suprema dell’essere senza la quale ogni opera umana è destinata a soffocare nel perimetro crudele del proprio tornaconto; insegnare educa a guardare negli occhi e a scoprire che negli occhi della gente si vede quello che vedranno e non quello che hanno visto; insegnare educa a scoprire che solo quando le vite dei ragazzi si connettono alla Vita essi vanno bene a scuola, perché andar bene, come ha scritto Alessandro D’Avenia, non è questione di voti ma di vita; insegnare educa che il più grande sinonimo di imparare è scoprire, perché la memoria trattiene solo ciò che scopre e non ciò che ripete.



Bearsi dell’essere, e donarlo, imprimendo segni: la sostanza dell’insegnamento è tutta qui. Certo, è un mestiere anni luce lontano dalla mentalità utilitaristica della nostra società, dove spesso le persone sono intorno a me ma non con me e dove così facilmente si riduce la comunione alla connessione, la ricchezza al patrimonio, l’affermazione alla fama. D’altronde, in una società in cui il mito del successo è stato privato di qualsiasi significato trascendente, l’unico metro di misura dei propri risultati è costituito, per qualunque individuo, dall’affermazione del proprio ego. Che è l’esatto opposto della dinamica dell’in-segnare. Ma nella misura in cui avvertiamo l’imbarazzo di questa lontananza, lì si svela a cosa teniamo veramente.



Quando affiorano la stanchezza, la fatica, la delusione, allora – e Dio solo sa quanto esse siano sante – non attardiamoci troppo nei pensieri, che sono quasi sempre i pensieri del mondo. Chiediamoci piuttosto “a cosa tengo veramente?”. Sarà una carezza per ripartire.