Lo sciopero dell’intera giornata del 30 maggio, indetto da FlcCgil-Cisl-Uil-Snals-Gilda contro il decreto legge 36 del 30 aprile scorso sul reclutamento e la formazione degli insegnanti, ha lo scopo – tra le altre cose – di sostenere, in alternativa, la richiesta di investimenti ampi negli aspetti più strategici del sistema d’istruzione, quali il rinnovo contrattuale e la stabilizzazione del personale.



L’incidenza di tale manovra nel mondo scolastico appare particolarmente ingombrante nel suo marcato centralismo decisionale. Impressiona e preoccupa, anzitutto, la scelta del metodo del decreto per riorganizzare in modo verticistico tanti aspetti delicati e complessi. Ma impressiona ancor di più che il decreto stia lasciando indifferente la classe politica, anche i parlamentari più vicini ai temi dell’istruzione, che pur in queste settimane sono chiamati ad analizzare e rivedere il testo uscito in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 aprile: pare che a una recente riunione convocata da Bianchi con i partiti di maggioranza, i capigruppo della Commissione cultura del Senato non si siano nemmeno presentati! Lo scarso coinvolgimento che traspare da questo semplice episodio delude e amareggia quanti lavorano con dedizione nella scuola, i quali ritengono che essa sia l’istituzione più importante della nostra società, ma anche per il futuro suo e del Paese.



Anche se uno dei motivi del ricorso alla decretazione d’urgenza sta nel ritardo finora accumulato dall’Italia in alcune riforme richieste dall’Ue per l’utilizzo dei finanziamenti del Pnrr, i contenuti del decreto avrebbero meritato adeguate riflessioni e confronti con i vari soggetti del mondo della scuola, o quanto meno l’esplicitazione delle motivazioni ufficiali per far comprendere a tutti il disegno e gli scopi impliciti di una tale riforma.

In mancanza di una spiegazione generale e chiara da parte del ministero, i soggetti della scuola vivono l’operazione come un’imposizione, percependosi ancora una volta come “l’ultima ruota del carro”, chiamata solo a grossi sacrifici e adeguamenti, non diversi da quelli dettati negli ultimi due anni durante pandemia e dalle nuove normative (es. educazione civica) da applicare con tempi e risorse inadeguati. La pubblicazione del Dl lascia insoddisfatte anche le forze migliori della scuola, che constatano ancora una volta di non essere realmente rappresentate e ascoltate, spesso in nome di esigenze e priorità considerate superiori rispetto all’esperienza vissuta tra i banchi e alla riflessione critica e sistematica su di essa. È evidente come la scuola non sia una priorità della politica del Belpaese, contrariamente a quanto si rileva nell’opinione pubblica, dove invece si comincia a parlare e a scrivere di essa più di prima.



Inoltre, spesso la scuola viene trattata come un semplice ramo della pubblica amministrazione, come ci rivelano, ad esempio, le modalità di svolgimento degli ultimi concorsi statali per la scuola secondaria, stabilite dal ministro Brunetta. Proprio il fallimento dell’ultimo modello concorsuale è un palese esempio di come la scuola, e in particolare i docenti, non possano essere trattati come dei semplici impiegati pubblici da selezionare in modo meccanico nelle modalità e nei criteri di reclutamento.

La disamina dei contenuti del Dl sarebbe lunga e comunque non esaustiva, pertanto mi soffermo solo su alcuni contenuti cruciali.

i) Riguardo al nuovo sistema di reclutamento, allo stato attuale nessuna università è in grado di gestire le nuove attività di formazione previste per il raggiungimento dei 60 Cfu che fungeranno da prerequisito per gli aspiranti insegnanti, e sappiamo come già tanti atenei italiani siano in difficoltà nella gestione degli attuali percorsi di specializzazione per il sostegno didattico. Si potrà sistemare tutto solamente attraverso l’ulteriore decreto previsto entro il mese di luglio? E anche se il nuovo sistema trovasse un’organizzazione accettabile, le università a cui è riservato l’onere di formare i nuovi docenti sono veramente i soggetti più adatti? Non si dovrebbe invece riconoscere che i docenti, che entrano in classe ogni giorno e hanno imparato nel tempo ad “educare insegnando”, hanno in realtà maggiori prerequisiti per possedere il ventaglio delle competenze ed attitudini necessarie per formare i colleghi più giovani?

ii) Col nuovo sistema i tempi di ingresso nella scuola, per gli aspiranti insegnanti, si allungano ulteriormente: alcuni hanno calcolato che per diventare docenti di ruolo, tra corso di laurea, acquisizione dei 60 Cfu previsti, svolgimento dei tirocini (non retribuiti), concorso statale ed anno di prova ci vorranno almeno 9 anni! Già sono pochi i giovani che desiderano accostarsi al prezioso mestiere dell’insegnamento, certamente un iter così lungo spaventerà chiunque… senza contare che anche nel Sud Italia, dove storicamente le graduatorie per l’accesso all’insegnamento sono state intasate per lunghi decenni, già negli ultimi anni si inizia a far fatica nel reperire insegnanti supplenti.

iii) Per quanto riguarda invece la formazione in servizio “incentivata” degli insegnanti in ruolo, il decreto interviene più volte su punti delicati riguardanti la materia contrattuale, che hanno il loro presupposto nel Ccnl (sul rinnovo del quale, pur essendo trascorsi 9 anni dalla scadenza, nei mesi precedenti il dialogo è stato praticamente inesistente). Quali conseguenze ci si devono aspettare, da parte dei lavoratori e dei corpi sindacali, dopo una manovra così azzardata che interviene sulle ore lavorative e sulla formazione obbligatoria (ma non retribuita), senza alcuna prospettiva di concretezza rispetto al tanto atteso rinnovo contrattuale?

iv) L’istituzione della “Scuola di alta formazione dell’istruzione”, incaricata di gestire sia la formazione iniziale sia la formazione in servizio dei docenti di ruolo, si configura come un organo rigorosamente centralizzato sia per i contenuti sia per l’organizzazione dei corsi, e appare molto più limitativo delle disposizioni contenute nella legge 107/2015, che aveva sì introdotto l’obbligo di formazione in servizio, ma lasciava comunque ampi spazi di autonomia ai singoli e ai territori. A chi può servire un tipo di formazione così rigida e dirigista? Tanto più che a finanziare questo nuovo “carrozzone” statale, dopo un primo utilizzo dei fondi del Pnrr (fino al 2026), saranno le risorse attualmente destinate alla card annuale dei docenti, introdotta dal governo Renzi con lo scopo di favorire l’iniziativa personale dei docenti in campo di innovazione digitale e formazione. Ciò che finora si configurava, almeno parzialmente, come un ausilio economico alla libertà di insegnamento attraverso la spesa per la formazione, sarà pian piano destinato ad una formazione unica, decisa centralmente dalla “Scuola di alta formazione”!

Ed è ancor più grave, a parer mio, che tra i soggetti scelti dalla Scuola di alta formazione per l’erogazione dei corsi non siano neanche nominate le associazioni professionali che si occupano di formazione in modo pubblico già da decenni, con competenza, dedizione e passione. Figurano, invece, non meglio identificati “Enti culturali”, purché rappresentino i Paesi le cui lingue sono compresi nei programmi scolastici italiani.

Inoltre, al fine di aumentare l’attrattività della partecipazione ai suddetti corsi formativi per i docenti, a chi supererà le prove finali (per una percentuale massima del 40% di partecipanti) è prevista una retribuzione una tantum, la cui spesa sarà sostenuta dalla “razionalizzazione” (!) dell’organico di diritto a partire dall’a.s. 2026/27, con particolare riguardo al contingente destinato all’organico di potenziamento: nei 5 anni scolastici che seguiranno, così, si “razionalizzeranno” (si legga “azzereranno”) circa 10mila cattedre. Questa operazione di “smontaggio” della legge n. 107/2015 comporta molte conseguenze cruciali. Anzitutto, la premialità viene subordinata a una notevole competizione tra colleghi, mentre chi insegna sa quanto sia fondamentale lo spirito di collaborazione e di costruzione di un bene comune, che prima di tutto si concretizza nella crescita a 360 gradi degli alunni che ci si ritrova affidati. In secondo luogo, ci si ritrova spiazzati perché da decenni la riforma più agognata dai docenti in termini didattici è la “semplice” riduzione del numero di alunni per classe, specie in presenza di alunni “speciali” o stranieri, che richiedono nei fatti una personalizzazione dell’insegnamento incompatibile con numeri più alti di 18-20 ragazzi per classe: la riduzione del numero di docenti su scala nazionale allontana inesorabilmente, per l’ennesima volta, questa richiesta accorata che i nostri politici ancora una volta non sanno o non vogliono cogliere.

Cosa dovrà ancora accadere per arrivare a una riforma della scuola che parta dalle esigenze reali e più largamente condivise dall’universo scolastico, che pure rappresenta – nei fatti – la fucina e la potenziale ricchezza e grandezza della società futura del Paese? 

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