La scuola sta affrontando in modo adeguato i problemi sollevati dalla pandemia? La domanda è importante per fare il punto su quello che sta accadendo a livello nazionale. Alcuni dati fanno riflettere: nel 2020 c’è stato un aumento degli abbandoni scolastici (543mila), in un paese già in seria difficoltà sulla questione. E non basta questo dato negativo: la Dad ha provocato un impoverimento nelle competenze. Alcune Regioni hanno fatto meglio di altre, ma attività laboratoriali da svolgere necessariamente in presenza sono state fortemente penalizzate. E pensiamo poi ai ragazzi che si sono iscritti al primo anno delle scuole superiori con quasi due anni di Dad alle spalle. Studenti catapultati dalle elementari alle superiori senza un accompagnamento psicopedagogico adeguato. Il tutto in un quadro in cui a fronte del sempre virtuoso Trentino, permangono criticità gravi nelle conoscenze matematiche in diverse regioni del Sud. E in una situazione in cui gli alunni di origine non italiana di primo arrivo o nati in Italia o presenti già da tempo si trovano a fronteggiare il non semplice andirivieni tra cultura di provenienza e cultura d’arrivo.
Che dire poi dei docenti, “cervelli sfruttati”? La didattica sullo schermo e lo stress del periodo hanno lasciato in alcuni il segno. Non hanno aiutato certamente l’imprevisto blitz ministeriale dello scorso anno con cui è stata istituita una nuova disciplina e cioè l’educazione civica come possibile risposta alla crisi con un carico aggiuntivo di lavoro, né il solito stanco rito di dare informazioni in ritardo sull’esame di Stato (scritti sì/scritti no) con il treno scolastico già in corsa. Risulta, a tal proposito, condivisibile l’intervento del classicista Luciano Canfora che ha richiamato tutti all’importanza della scrittura per lo sviluppo del giudizio critico.
Ma tutto questo calderone di problemi mette in luce un fatto elementare: non si può più continuare con semplici aggiustamenti, confidando nella buona stella. La scuola ha bisogno di ripartire dal fattore umano. In sofferenza è l’umano. I burocrati che non conoscono l’alunno reale, il docente reale, i problemi reali, complicano inutilmente la vita con circolari continue e numeri di protocolli, abbondantemente conditi da anglicismi inutili e petulanti.
È necessaria, invece, una rivoluzione pedagogica: l’alunno non è una testa da riempire o un ente cognitivo da misurare con strumenti docimologici precisi e crocette da inserire nei test. Nella scuola in questi anni si è dimenticato ciò che conta di più: l’io. L’alunno è un io, il docente è un io, i genitori sono degli io. Ed è proprio l’io, ciò che può resistere durante questa pandemia e in virtù della sua sete d’infinito creare varchi e brecce nell’oscurità.
Oggi gli organigrammi delle scuole prevedono funzioni strumentali, ma perché non prevedere servizi alle persone, agli studenti? Perché non avere docenti esperti, dotati di umanità e competenza che curino il rapporto con le famiglie di origine non italiana che per questioni di fede o altro fanno fatica ad accettare la nostra Costituzione? Perché non avere professori che aiutino con discrezione e capacità i docenti in difficoltà e a rischio di scoppio o i colleghi alle prime armi? Perché non avere docenti che seguano gli studenti nel metodo di studio e/o che formino alle capacità emotive e psicosociali (character skills)? Perché non utilizzare docenti nell’aiuto ai genitori e agli alunni sull’orientamento, sul ri-orientamento e nella ricerca/attivazione di una scuola innovativa/esperienziale?
Il cambiamento della scuola non è solo una questione tecnica: più Lim e tablet per tutti. Non si avanti solo con la raccolta punti dei supermercati e con le donazioni per colmare il divario tecnologico. Il cambiamento della scuola, infatti, parte dal cambiamento dell’io: bisogna iniziare a guardarlo nella “vita viva”. Esiste. C’è ed è decisivo in questo momento.
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