Ho letto con interesse, condividendone in toto l’assunto, il recente articolo sul Sussidiario di Fabrizio Foschi che, a proposito di orientamento nella scuola, chiede una “didattica della speranza”. Mi pare molto significativo, in particolare, il rilievo che “i ragazzi devono percepire che sono un valore e che la loro vita ha un significato che non dipende dalle prestazioni che rendono”, mai così attuale come in questi giorni di rush finale dell’anno scolastico.



Eppure mai come in questi giorni quel rilievo è drammaticamente assente nelle teste dei docenti sparsi sull’italico suolo. Ben altra è la preoccupazione, ben altra. C’è un mostro che si aggira nelle aule scolastiche e nelle sale professori: si chiama “programma”, una sorta di spada di Damocle incombente sulle povere teste, che genera un’ansia di obbedire a un ordine (per riprendere una geniale intuizione di Pasolini) che apparentemente nessuno ha pronunciato. Ma il programma è radicato, non si schioda. È un’ossessione che si incardina profondamente e non solo nelle teste dei vecchi docenti, ma soprattutto in quelle dei giovani, e questo fa male.



Ragioniamo: cos’è un programma scolastico? Un elenco di contenuti svolti durante l’anno di scuola. Stop. Niente più di questo. Nella mia ormai lunga esperienza di commissario negli esami di Stato ne ho visti tanti, tutti più o meno uguali, perché poi i contenuti sono quelli e il tempo (sempre meno) a disposizione è quello. I programmi sono elenchi di cose “fatte”. Didattica della speranza? Ma per favore! Didattica dei contenuti e basta! L’unico problema sembra essere “arrivare” da qualche parte, perché non sta bene, per esempio, alla fine del terzo anno essere ancora a Boccaccio. Almeno a Machiavelli! L’ordine in effetti nessuno l’ha pronunciato, ma tutti sono pronti a sindacare (genitori in primis, che notoriamente oggi capiscono tanto) se un docente si attarda per strada perché ha altro da fare. Mi chiedo, per esempio: c’è nel programma lo sviluppo della maturità degli studenti, la loro crescita individuale, la loro capacità di autocritica, di riflessione, di comprensione dell’altro, lo sviluppo di un proprio metodo di studio? C’è il dialogo fra di loro e con i docenti? La fioritura della personalità degli studenti è contemplata in un programma? Forse tutto ciò starà scritto da qualche parte, magari nella programmazione di inizio anno scolastico, in quel documento pieno di buone intenzioni. Ma quella è carta. Nelle teste dei docenti esistono solo i capitoli dei libri.



I colleghi che piangono perché “stanno indietro”, o magari sono invece sereni perché stanno “avanti”, fateci caso, hanno in mente solo dei contenuti e di quelli vi parleranno: “Non sono riuscito a fare questo, quest’altro…”; “Quest’anno sono riuscito a fare questo e anche quest’altro…”; “Mi manca questo e quest’altro, ma li faccio negli ultimi quindici giorni…” e così via. Si lamentano perché stanno indietro con i contenuti, mentre magari la classe sta avanti per qualcosa d’altro. Oppure si vantano di essere molto avanti, mentre la classe è rimasta indietro, non li ha seguiti. L’idolo programma è stato accontentato e ha determinato il successo o il fallimento di un intero anno scolastico. Non va così? E allora eccola la corsa infernale degli ultimi giorni a mettere legna sul fuoco dei programmi, ad aggiungere argomenti che non sono stati nemmeno assimilati. Eccola quell’odiosa pratica per cui si chiede agli studenti di firmare un elenco di contenuti che, in realtà, non sono nemmeno stati svolti.

Perché allora elencarli? Cui prodest? Chi ci controlla? Chi perseguita, ad esempio, un docente di storia che all’ultimo anno della secondaria (di primo o secondo grado, non importa) è arrivato a malapena, e all’ultimo momento, a dei cenni sulla guerra fredda? Ogni gruppo classe ha la sua propria storia, è un microcosmo diverso da tutti gli altri, tanto per i ragazzi che lo compongono, quanto per le vicende che ha vissuto nel corso degli anni, quanto anche per certe particolari circostanze che ne hanno favorito o rallentato lo sviluppo.

Ma queste banalissime considerazioni, che nascono dal guardare la realtà effettiva delle cose, non riescono a farsi largo nelle teste di tanti docenti. Una volta ho fatto una domanda ad alcuni colleghi di terza media: ora che state per licenziare i vostri studenti, cosa volete che abbiano nello zaino quando affronteranno la scuola superiore? Giuro che lì per lì qualcuno non ha neanche capito la metafora. Ma in ogni caso la domanda resta. Pensi che l’interrogazione a giugno di un ragazzo sull’ultima porzione di programma che hai spiegato abbia un senso? Pensi che quella particolare performance abbia un valore che sia qualcosa di più di uno sforzo di memoria a corto raggio? Sono davvero solo dei contenuti che ti interessa mettere in quello zaino? Il tuo enciclopedismo non regge più, soprattutto in un’era di intelligenza artificiale. Bisognerà ripensarsi, una volta buona, o no?

Se è proprio vero che “il giorno della fine non ti servirà l’inglese”, come cantava Franco Battiato, voglio però, a scanso di equivoci, rassicurare il lettore: i contenuti sono importanti, mica storie, e anch’io ho il mio bell’elenco di autori e di testi letti da sciorinare. Anch’io ho fatto il mio compitino, il mio programma che non è dissimile da quello di molti altri colleghi. E sia pure, si fa così. Io per primo però mi faccio una domanda un po’ angosciosa, che non è “avrò fatto poco?”, ma è: “Quello che ho fatto a scuola con i ragazzi ha lasciato qualcosa? È servito a qualcosa?”; ho contribuito col mio lavoro alla loro crescita? O, addirittura, alla loro speranza? Quella studentessa che è già pronta a iscriversi a medicina, quell’altra che si vede già ad odontoiatria, quell’altro che farà l’ingegnere informatico o il carabiniere o qualsiasi lavoro che riuscirà a trovare, cosa si porteranno dietro delle mie lezioni di letteratura? Cosa ho messo nel loro zaino? Come li sto aiutando ad essere persone che affronteranno prove faticose e che avranno in un prossimo futuro un ruolo importante, come quello di ogni uomo sulla terra?

Nel programma, oltre all’educazione al sapere, non dovrebbe figurare anche quella all’essere? Sì, certo. Ma allora perché non se ne parla mai? In questi giorni di rush finale della scuola, mentre anch’io arrancavo dietro a Pirandello, Svevo, Montale, Ungaretti (sì, sono riuscito a farli, nonostante tutte le interruzioni e i vari intralci che caratterizzano la scuola moderna) mi sono spesso trovato a dire ai miei ragazzi: “Questo è quello che posso donarvi, questi versi così belli e profondi, questi passi che ci fanno pensare. È molto poco. Il resto lo farete voi, lo vivrete voi. Sarà solo compito vostro prendere sul serio questo dono, portarlo con voi e approfondirlo, farlo vostro e magari viverlo”.

La scuola non è una macchina spara-nozioni, ma il luogo in cui nasce l’avventura della conoscenza, in cui si comunica l’entusiasmo per la conoscenza, oltre il criterio meramente utilitaristico. Questo andrebbe capito e calato nella realtà di tutti giorni. E il docente dovrebbe avere un’ansia diversa, rispetto a quella del numero di pagine del programma. Dovrebbe essere l’ansia di chi vuol diventare un tramite stimolante, un motivatore, un traino, una guida. Se non, addirittura o magari, una speranza.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI