Questa estate, provocata da un articolo sulla carenza di docenti in Svizzera e dalla necessità di sostenere diversi colloqui in vista di nuove assunzioni, mi sono seriamente posta la domanda: perché vale la pena insegnare? Perché in un contesto culturale e sociale in cui dominano l’individualismo, l’indifferenza al problema del senso, la brama di successo, il rifiuto sistematico della fatica, la fragilità affettiva e relazionale, un giovane dovrebbe intraprendere la professione di insegnante?
Sono rimasta sorpresa da due tipi di risposte dei candidati durante i colloqui di selezione alla domanda: “Perché vuole insegnare?”. Alcuni, giovanissimi, freschi degli studi universitari, rispondevano che il desiderio di insegnare era nato in loro dall’aver incontrato nel percorso di studi docenti appassionati alla loro disciplina, capaci di coinvolgere gli studenti nei suoi contenuti (uno ha detto addirittura “felici” di insegnare), tanto da destare in loro l’idea che l’insegnamento potesse essere una possibile strada di realizzazione della propria umanità. Altri, più attempati, dedicatisi per alcuni anni ad altri mestieri, hanno invece compreso l’importanza e la bellezza dell’insegnamento aiutando i loro figli e gli amici dei loro figli a svolgere i compiti o a recuperare.
Ma per capire perché valga la pena insegnare, occorre innanzitutto chiedersi che cosa sia “insegnare”. “Insegnare” viene dal latino tardo insignare: “incidere, imprimere dei segni nella mente”, composto di in e di signare “mostrare, spiegare”. Cui consegue l’apprendere, l’afferrare con la mente (ad + prehendere). Ma soffermiamoci sull’immagine del ficcare dei segni nella mente: che differenza c’è con il ficcare dei chiodi nel muro? Con il ficcare degli occhiali in un cassetto?
Vi è una differenza enorme tra un oggetto e un segno. Perché un segno non è qualcosa di statico e definito, qualcosa che è, in sé concluso, ma qualcosa che è e significa: “una cosa che si vede e si tocca e che nel vederla e nel toccarla mi muove verso altro… un’esperienza reale che mi rimanda ad altro – scrive don Luigi Giussani ne Il senso religioso –. Il segno è una realtà il cui senso è un’altra realtà, una realtà sperimentabile che acquista il suo significato conducendo a un’altra realtà”. Solo chi ha fatto esperienza della realtà del segno nel suo percorso di conoscenza, chi ha gustato il movimento che nasce dal lavorio di interpretazione del segno, chi ha sperimentato il cammino di scoperta dal significante al significato, chi ha provato consapevolmente l’esperienza dello svelamento del senso, chi ha vissuto l’avventura dello spalancarsi dell’orizzonte di senso nel tentativo di conoscere un qualunque contenuto disciplinare, può essersi formato un’almeno vaga idea della bellezza dell’insegnamento.
A me è capitato di cogliere la potenza euristica di tale cammino di interpretazione all’università, quando il mio professore di linguistica generale ci propose di lavorare sulla congiunzione “e”. Un anno di corso monografico dedicato allo studio di questo piccolo segno. La reazione iniziale di noi studenti fu lo sconcerto: “Cosa vuoi dire sulla ‘e’ se non che è una congiunzione copulativa che unisce due elementi linguistici?”. Così ci avevano insegnato fino ad allora e la presunzione che tale definizione fosse tutto ci portava a irridere la proposta. Nelle nostre menti si trattava, cioè, di un elemento in sé concluso, non di un segno, non immaginavamo neanche lontanamente un possibile cammino di interpretazione necessario per conoscere veramente la “e”. Durante il corso fummo magistralmente smentiti, perché il professore, offrendoci casi di studio sempre diversi e sempre più complessi da interpretare, ci condusse a scoprire le questioni fondamentali del linguaggio e della formazione dei testi. Comprendemmo che per costruire e comprendere le frasi non basta conoscere la lingua, occorre considerare l’elemento nel contesto della frase e fare ricorso all’esperienza; ci interrogammo sulle possibili interpretazioni che di una stessa frase si possono dare in base al punto di vista che si assume; venimmo introdotti allo studio dell’implicito, elemento fondamentale nella costruzione del testo e nell’atto comunicativo.
Lavorando su un oggetto di interesse, un elemento linguistico, sapientemente interrogato dal docente, noi studenti venivamo coinvolti in un percorso di conoscenza che in un anno ci consegnò metodo, linguaggio e contenuti propri della linguistica, rendendoci via via sempre più protagonisti e indipendenti nella ricerca.
In questa ricerca di senso, che non trascura alcun aspetto del significante, ma al contempo lo considera in relazione al significato, e che accomuna docente e studente, risiede innanzitutto il bello dell’insegnare una disciplina. È evidente che la scelta dei contenuti da proporre nell’insegnamento è decisiva tanto quanto il metodo con cui ne affrontiamo lo studio. Se infatti si offrono agli studenti contenuti che non hanno natura di segno, o se, pur avendola, sono considerati alla stregua di oggetti in sé conclusi e definiti, non si aprono orizzonti di senso e non si attiva quel processo interpretativo che chiama in causa ragione e libertà, sia del docente sia dello studente, fino alla scoperta del nesso che ogni particolare ha con la totalità e con il proprio destino.
Ogni segno, infatti, se adeguatamente e pazientemente indagato, ha come orizzonte di senso ultimo il destino. Più, infatti, ci inoltravamo con il professore di linguistica nello studio della congiunzione “e”, più scoprivamo non solo le leggi che governano la lingua e la testualità, ma anche le potenzialità della nostra stessa ragione e ci addentravamo nel mistero ultimo del suo Creatore, a somiglianza del quale siamo fatti e di cui la nostra ragione, affezione e libertà portano pallidamente le fattezze. In un cammino che non saltava passaggi, non applicava discorsi a lato degli oggetti di indagine, ma seguiva passo dopo passo le mosse della ragione sollecitata da continue domande che accompagnavano ciascuno nel “giardino dell’essere” alla scoperta della realtà, di sé stessi, del mistero che fa tutte le cose: “La preoccupazione dell’uomo e del suo destino deve sempre costituire l’interesse principale di tutti gli sforzi tecnici; non dimenticatelo mai, in mezzo ai vostri diagrammi e alle vostre equazioni” (A. Einstein).
Questa esperienza di interpretazione del segno nella disciplina in cui mi sono laureata è sicuramente all’origine del mio desiderio di continuare a conoscere, studiare, fare ricerca. E al contempo è nel tipo di relazione con questo eccezionale professore di linguistica all’università e con alcuni altri che ho avuto la grazia di incontrare precedentemente che si è resa evidente la convenienza e il gusto di condividere con altri la propria ricerca. Cioè, di insegnare. Perché l’insegnamento è ricerca di senso, ed è al contempo amicizia.
Vale dunque la pena insegnare per fare sistematicamente esperienza del segno, approfondendo così la conoscenza del destino nell’indagine dei particolari che nello studio hanno destato il nostro interesse, e farla in amicizia. L’educazione dei giovani è una conseguenza di questa nostra gustosa esperienza, al di là di tutte le fatiche, i sacrifici e i rischi che il nostro lavoro può comportare. Il docente, quando è certo del valore del suo insegnamento, entra in classe “con una consapevolezza diversa, perché può guardare il ragazzo come colui che sta potenziando la sua umanità, che sta diventando protagonista della storia e che possiede un’altra dignità. Non sta a polemizzare sul nichilismo in cui il ragazzo è immerso dalla mattina alla sera: gli offre una alternativa” (Eddo Rigotti, Conoscenza e significato. Per una didattica responsabile, Mondadori 2009).
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