(per Graziella Giovacchini: tutti i suoi allievi sanno il perché, nda) – È passato del tutto inosservato il grido d’allarme denunciato lo scorso dicembre dal professor Luigi Ambrosio, direttore della scuola Normale di Pisa secondo il quale, oggi, l’ascensore sociale, che in passato permetteva al figlio dell’operaio di diventare normalista e laurearsi, è praticamente scomparso. Sono oramai una quindicina di anni che alla prestigiosa università pisana accedono solamente figli di persone che hanno a disposizione eredità e contesti culturali senz’altro privilegiati. A nulla serve che quella prestigiosissima Scuola metta da sempre a disposizione dei suoi allievi vitto, alloggio e corsi gratuiti perché chiunque possa frequentarla purché ovviamente “meritevole”: purtroppo da tempo le sue aule non sono frequentate da ragazzi “del popolo”.
In passato era del tutto scontato, verrebbe proprio da dire normale, che alla prestigiosa università pisana si iscrivessero allievi figli di operai e perfino di ceti sociali ancor più marginali. Per diretta conoscenza di chi scrive, vi hanno avuto accesso ragazzi orfani di padre operaio e perfino figli di contadini, quando esserlo significava appartenere al contesto sociale più umile, per non dire arretrato, dell’intero paese. Tutto ciò era possibile perché, pur con tutti i limiti della “vecchia” scuola italiana, rispetto a quella di oggi la Normale del passato era in grado, come lo stesso direttore Ambrosio sembra riconoscere, di garantire straordinarie possibilità a ragazzi che possedendo spiccate capacità sarebbero stati in grado di rivoluzionare la loro vita e perfino quella della loro stessa famiglia.
E tutto ciò sarebbe stato possibile anche perché molti di questi ragazzi avevano avuta l’altrettanto straordinaria possibilità d’incontrare sulla strada della loro formazione docenti illuminati (a quei tempi forse abbastanza rari e una vera fortuna incontrarli) che, non rinunciando alla loro missione e passione civile, instradavano questi loro allievi verso percorsi formativi di alto spessore perfino degni della Normale. E, per riuscirvi, non era raro dovessero insistere e dannarsi per convincere genitori impauriti e increduli davanti a tali impegnative prospettive che avrebbero collocato i loro figlioli nella medesima condizione di coetanei di ben altra estrazione sociale.
In assenza di docenti così, la strada di questi ragazzi sarebbe stata segnata dal percorrere esattamente quella fatta dalla loro famiglia o, nella migliore delle ipotesi, avviandosi per quella del seminario, qualora un benefattore o la comunità si fossero fatti carico di sostenerne le spese. Questa è stata la nostra realtà sociale, almeno fino ai primissimi anni settanta: tradizionalmente e istituzionalmente ingiusta, classista e assolutamente da non rimpiangere. Tuttavia in grado di formare intellettuali, scienziati e una classe dirigente degna di questo nome e che per diventare tale aveva potuto misurarsi con una scuola che, malgrado le tante ingiustizie che pur offriva, era tuttavia in grado di valorizzare il merito: almeno quando questo era davvero straordinario.
Con la “nuova scuola”, quella che prese forma proprio nei medesimi anni, avremmo voluto che le tante ingiustizie del passato fossero superate e che le opportunità di valorizzare i talenti si estendessero anziché, come purtroppo è accaduto, venissero svilite in nome di una concezione assistenziale e demagogica che non prevede la serietà e il merito come condizione perché la scuola sia davvero un “ascensore sociale”. E lo svilimento avviene purtroppo per scelta o incompetenza politica o per entrambe le ragioni che hanno permesso che la scuola non si curi più di intercettare, formare e valorizzare i ragazzi talentuosi: a maggior ragione quando questi provengono da ceti sociali più svantaggiati.