Negli ultimi due decenni si sono moltiplicati gli studi e le ricerche se e come superare i modelli scolastici tradizionali eredi della stagione prussiano-napoleonica per renderli compatibili con le trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti. Nel 2001 l’Ocse pubblicò lo studio Schooling for Tomorrow cui fecero seguito il rapporto del National College for School Leadership, i “dieci principi” della Fondazione statunitense Mac Arthur, le recenti proposte del World Economic Forum e molto altro ancora (per quanto riguarda l’Italia ved. il volume della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, Un giorno di scuola nel 2020).



Secondo questi studi saremmo in presenza di tre principali scenari che riprendo dal documento Ocse sopra indicato.

1. Il primo è rappresentato dalla conservazione dello status quo, salvo qualche marginale ritocco. La fortissima resistenza al cambiamento di molti attori scolastici (spesso silente, ma non meno rocciosa) sarebbe un ostacolo insormontabile in grado di frenare/impedire qualsiasi prospettiva di reale cambiamento. L’alleanza tra i docenti conservatori, la difesa corporativa delle loro prerogative, l’inerzia dell’alta burocrazia ministeriale e l’incapacità del mondo sindacale di sostenere una coraggiosa linea di politica scolastica progressista costituirebbero i principali fattori, non solo in Italia, in grado di garantire ancora a lungo l’immobilità del sistema.



2. Speculari a questa posizione stanno i fautori di una graduale ma sostanziale e sostanziosa descolarizzazione. Sono riconoscibili in quanti sposano l’idea che “questa scuola”, anche quando le condizioni lo rendessero possibile, non si può più modificare tanto le sue strutture sono obsolete. Non resterebbe che accompagnarne la morte fisiologica (il sogno di Ivan Illich negli anni 70) e costruire, soprattutto mediante le opportunità fornite dalla rete e dalle tecnologie, pratiche di apprendimento e forme di socializzazione sostitutive, in larga misura dematerializzate. Cosa resterebbe della scuola che conosciamo? Forse la competenza di certificare i livelli di apprendimento – se proprio si vuole salvaguardare il riconoscimento del titolo legale – conseguiti ciascuno secondo i propri tempi e interessi mediante tempi e modalità variabili. A questa tesi aderisce una minoranza di insegnanti e di famiglie, per ora, ma molto ben attrezzata e sostenuta da importanti interessi economici.



3. Ci sono infine i riscolarizzatori che perseguono un’idea di “scuola diversa”: senza rinunciare all’apporto delle tecnologie, diffidano tuttavia dell’egemonia digitale e delle forme d’istruzione esageratamente destrutturate. Esse rischierebbero di trasformare l’insegnamento/apprendimento in esperienze solitarie e azzerare gli aspetti emotivi e affettivi che le accompagnano. Dai riscolarizzatori viene rimarcato con particolari enfasi che la scuola non è solo un luogo di esercizio cognitivo, ma anche di relazioni significative adulto/minore, un’opportunità di confronto culturale, un esercizio di convivenza, uno spazio di prova delle soft skills. Ma è davvero possibile dar vita a una “scuola diversa”? Sì, a condizione di liberare le scuole dai vincoli che ne condizionano la quotidianità, limitando a poche e generali regole il funzionamento, lasciandole libere di scegliere il personale e di predisporre i piani di studio, coinvolgendo le comunità locali, tutte condizioni necessarie per trasformarle in esperienze vitali e fare dell’autonomia non solo a parole.

È facile intravedere in questi tre scenari non solo gli orientamenti che attraversano il dibattito sul futuro scolastico nel mondo occidentale, ma anche le traiettorie della discussione politico-scolastica che si sta aprendo in Italia con caratteristiche – è facile prevederlo – molto diverse dal passato per due ragioni.

L’imprevista opportunità di sperimentare forzosamente un modello scolastico differente da quello tradizionale (casalingo, didattica a distanza, mancanza di rapporti in presenza con i docenti) ha documentato che sono possibili forme di insegnamento/apprendimento alternative a quelle abituali (naturalmente qui lasciamo perdere la loro attuale precarietà). Quanto avvenuto fulmineamente (e senza preparazione) negli ultimi tre mesi ha dimostrato che si può avere “un’altra scuola” (e non solo parlarne in astratto): in poco tempo si è incredibilmente aperto uno spazio d’azione inimmaginabile fino a poco tempo fa.

La seconda ragione è legata al patrimonio di esperienza umana vissuta nell’emergenza pandemica: le vicende di questi mesi fatte purtroppo di sofferenza, morte, povertà sono state accompagnate anche da generosità, partecipazione solidale, gratuità. Un patrimonio di valori umani che ha toccato il cuore di molti, che ha dato un nuovo senso alla realtà nazionale esaltando importanti dimensioni immateriali della vita comune. Non si può fingere che 30mila morti (ma sono sicuramente molte di più) siano passate senza suscitare domande significative. Di fronte alle statistiche della pandemia siamo stati spinti a riscoprire aspetti di senso vissuti a livello collettivo spesso censurati perché opinabili e in quanto tali confinati nella categoria ideologica. 

Per quanto riguarda il futuro scolastico è molto difficile ipotizzare in quale direzione queste sollecitazioni potrebbero ridisegnarlo. Probabile che nessuna delle tre opzioni schematicamente presentate possa tradursi nella realtà, prevedibile invece che si creino soluzioni trasversali miste.

Una fondata preoccupazione è che si prendano delle scorciatoie semplificanti che potrebbero incrociarsi, per esempio, nella saldatura tra un neo-centralismo rassicurante e moderatamente generoso (qualche finanziamento per moltiplicare le dotazioni tecnologiche collettive e personali) che tranquillizza i vertici di viale Trastevere, la sostanziale conservazione dello status quo (che fa contenta la maggioranza dei docenti e dei sindacati) e una diffusa digitalizzazione presentata come scelta “progressista” e “democratica”.  Come se dal numero dei pc in possesso delle famiglie e degli studenti si potessero dedurre la qualità della scuola e della formazione dei giovani.

In gioco c’è qualcosa di più e di diverso. Bisogna di nuovo tornare a interrogarci su quale educazione in generale e scolastica nella fattispecie vogliamo, proprio come è accaduto ogni volta che in passato la scuola ha attraversato i tornanti del cambiamento sociale e politico (ricostruzione democratica, sviluppo economico, scuola di massa…).

Se lo scopo dell’educazione è funzional-utilitaristico, il cuore dell’azione educativa è occupato soprattutto dalla dimensione dell’istruzione e dell’addestramento con tutto l’apparato metodologico che queste forme di trasmissione delle conoscenze comportano. Il problema del metodo assorbe perciò tutta la scena con l’ossessività delle procedure e con l’illusione di trovare finalmente quello perfetto e infallibile. Insomma le tecnologie dell’istruzione finiscono per porsi come una nuova ontologia orientata in senso tecno-efficientistico. E allora va bene puntare tutto sulla moltiplicazione dei pc e sulla potenza della rete.

Se invece lo scopo dell’educazione è prima di tutto umanizzante e cioè volto a far scoprire all’altro il senso di sé come persona umana e il suo posto della rete sociale nella quale vive, l’azione educativa si svolge attraverso altre piste. Per dirla con Romano Guardini, queste puntano a valorizzare soprattutto l’“incontro” tra persone e l’apertura a ciò che non è ancora, ma può essere: “Se l’uomo resta chiuso in se stesso senza mai correre il rischio di aprirsi alla realtà, diverrà sempre più misero e povero”. E allora l’esperienza cognitiva da sola non è più sufficiente.

Perché il baricentro per rilanciare l’educazione non potrebbe essere proprio quel patrimonio valoriale che la tragica esperienza del virus ha consentito a tutti noi di sperimentare?

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