“C’è un momento, a 7.000 giri al minuto, in cui tutto svanisce. La macchina diventa senza peso. Scompare. Tutto ciò che rimane è un corpo che si muove attraverso lo spazio e il tempo. È lì che lo incontri. Ti fa una domanda: chi sei?”. Queste parole aprono e chiudono il recente bel film Le Mans 66 e mi sono tornate alla mente in questi giorni in cui sembriamo essere metaforicamente arrivati tutti insieme a quei fatidici 7.000 giri, cioè al massimo, ad un punto in cui ognuno ha la possibilità di cercare una risposta non falsa a quella domanda.



Non è facile però starci di fronte. Me ne rendo conto anche perché, oltre alla fatica dell’isolamento e alle preoccupazioni pratiche del vivere quotidiano, mi turba molto leggere certi testi che spopolano sui social a tutti i livelli, anche tra docenti. Tra quelli che mi hanno più provocato, uno inizia così: “credo che il cosmo abbia il suo modo di riequilibrare le cose e le sue leggi, quando queste vengono stravolte” e poi tutta una serie di considerazioni sui vantaggi indiretti del virus per l’ambiente, la famiglia, la politica e la società. In un altro testo, si legge che “a volte arriva un Cristo, altre volte è un Dio altrettanto invisibile e microscopico a parlarci di una nuova umanità necessaria.  Se facciamo il conto dei morti, è un prezzo basso e necessario”.



Davanti ad affermazioni del genere, che forse in tempi normali difficilmente troverebbero tutto il consenso di questi giorni ma che oggi rimbalzano velocemente di chat in chat come ragioni plausibili per affrontare la circostanza che stiamo vivendo ormai a livello planetario, il mio cuore sussulta. Esse sono espressioni di quell’ideologia per cui ciascuno di noi è, in fondo, un impersonale frammento dell’oscuro ed insensato corso di un cosmo che, vera e propria entità pensante, si autoregola. Gli eventi sono quindi inevitabilmente “positivi” perché, anche se vedono la scomparsa di un certo numero di persone, affermano l’ineluttabile procedere del tutto verso il bene. Il reale è razionale e il razionale è reale. Tanto che, tirandola per iperbole, forse faremmo meglio a non combattere il virus perché è solo lo strumento della provvidenza universale. Basterebbe lasciarsi andare.



Non è una novità. Si tratta di un’idea antica, che ha avuto varianti diverse, dove l’io è annichilito di volta in volta nel “generale”, nel “collettivo”, nella “razza”, nella “classe” sociale, nella “specie” eccetera. Oggi, in chiave più ecologistica, nella Madre Natura, panteisticamente intesa.

Personalmente ho fatto per la prima volta i conti con una delle versioni più agguerrite di questa ideologia quando mio padre morì più di quarant’anni fa e fu la mia prima vera esperienza della morte. Per trovare un perché che potesse rispondere in modo ragionevole all’evento, mi rivolsi fiducioso alla visione del mondo che, come per tanti miei coetanei, ispirava allora il mio pensiero e orientava il mio agire in modo totalizzante: quella di Karl Marx. Ero convinto che anche su questo avesse qualcosa di vero e di giusto da dirmi, dandomi quella stessa certezza che trovavo nella militanza politica. 

Che amara delusione scoprire che l’unico esplicito riferimento alla morte nella monumentale opera di Marx è questo: “la morte appare come una dura vittoria della specie sull’individuo. L’individuo determinato, tuttavia, non è che un essere genericamente determinato, e come tale è mortale”. (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44). Ma come, pensai, mio padre, proprio lui, che per me non era affatto un ente generico della specie umana, era stato così inghiottito dalla natura e basta? Di lui non rimaneva proprio niente, se non noi figli, destinati comunque alla stessa sorte? Tutta qui, dunque, l’esistenza sua e mia?

Mi accorsi drammaticamente che, pur in buona fede e spinto da un desiderio di giustizia, avevo speso gli anni della mia giovinezza perché si diffondesse e affermasse nella società non solo una nuova struttura economica, politica e sociale, ma una concezione dell’uomo come “pezzo di materia o cittadino anonimo della città terrena” (Gaudium et spes 14).

Le affermazioni riportate in apertura di queste brevi considerazioni ci mostrano che la stessa ideologia, mutatis mutandis, prende oggi la forma variegata del nichilismo, suo estremo approdo. Come scrive Costantino Esposito sulle pagine dell’Osservatore Romano, “l’essere che io sono non va più pensato come un ‘dato’ oggettivo, ma come il ‘caso’ soggettivo di un processo evolutivo impersonale, un momento di transito provvisorio: quello che il nichilismo orientale, ispirato al buddismo, chiamerebbe la ‘non-permanenza’ o la ‘non-esistenza’ del sé individuale. Momenti accidentali nel flusso necessario della natura: ecco cosa sarebbero gli esseri umani, e non è affatto detto che la mancanza di un senso personale sia una perdita. Secondo alcuni potrebbe anche essere una liberazione, la possibilità di vivere la vita per quello che è, nel suo nudo accadere — e basta”. (“L’infinito che sta dentro”, Osservatore Romano, 25 feb. 2020)

Tuttavia, se questo sembra essere il mainstream intellettuale, la filosofia corrente riproposta a più livelli per razionalizzare l’esistente, la realtà ci suggerisce fortunatamente altri segni. Nelle pieghe di queste ore concitate e spesso dolorose è possibile osservare azioni e comportamenti che testimoniano di una resistenza dell’io a farsi annientare dal presunto cieco procedere degli eventi.

L’elenco sarebbe lunghissimo. Dal personale sanitario che lotta ogni secondo contro il male che il virus può arrecare ribadendo con i fatti il valore della vita del singolo, al docente che si sforza di cercare tutti i sistemi per stare vicino ai propri alunni, uno per uno; dai tanti giovani volontari che portano il cibo a domicilio agli anziani ai piccoli gesti di solidarietà quotidiana e ai tanti che continuano a lavorare e a studiare.

Sperando di non essere frainteso, direi che persino i comportamenti più “trasgressivi” (e non è un caso che non siano solo i giovani ad averli), al fondo pongono in modo potente la questione di un “io” personale che non vuole essere ridotto, neanche come “natura”, a mero accidente; che anche in questa contingenza reclama, confusamente ma realmente, di essere se stesso, di non essere travolto dal fato, di non sopravvivere ma di vivere.

Chi infrange le disposizioni di legge, probabilmente sa benissimo quello che rischia, ma corre il pericolo per affermare la propria personale identità anche come corpo. Perché nell’uomo, il corpo non è semplicemente natura ma “carne”. “La carne è la nostra più profonda vocazione — oso dire — spirituale: è il corpo proprio, il corpo vissuto…, la chiamata a essere noi stessi — proprio noi, non altri — e insieme il nostro chiamare a noi il mondo, la nostra capacità di percepire sensibilmente il senso più-che-sensibile della vita”. (Costantino Esposito, “La vocazione della carne”, Osservatore Romano, 10 mar. 2020)

È un io che insorge in questi giorni, che reclama il suo essere riconosciuto come persona, che non sente di meritarsi il castigo di Madre Natura e del suo angelo sterminatore Covid 19, che non riesce a capire perché la salvezza dell’umanità dovrebbe passare sopra a quella propria, che non si accontenta della retorica fatalistica tipo “vedrai che tutto si sistemerà”, che vuole essere protagonista come può e come sa, anche sbagliando purtroppo.

Mi ha scritto un’alunna in una delle tante testimonianze che mi arrivano in questi giorni: “mi sono improvvisamente resa conto che non è questo ciò che voglio e ciò in cui spero, voglio poter decidere, essere attiva e non stare a guardare mentre la mia vita scorre, voglio alzarmi dal divano su cui sono seduta da tutta la vita e spegnere il computer per pensare alle cose vere, quelle davvero importanti ed è anche per questo che le scrivo, vorrei sapere da lei come fare, come lasciare la mia impronta e come non pagare l’alto prezzo dell’inerzia perendo la mia libertà”.

Voglio “lasciare la mia impronta” nel mondo, non voglio essere nata invano, dice la mia alunna. Cose così ne stanno arrivando tante, soprattutto a noi insegnanti di religione. E anche gli adulti sono in fermento, come la mia amica insegnante che irrompe con un suo messaggio nella caotica chat dei docenti chiedendo: “è possibile costituire un altro gruppo di whatsapp per parlare di noi e delle nostre paure”. Message in a bottle, si potrebbe dire.

È il forte segnale antropologico di una permanenza dell’io come desiderio e domanda che contrasta nei fatti il nichilismo nella versione ideologica dominante perché ne svela la menzogna. Paradossalmente, proprio nel momento in cui sembrerebbe vincere sul piano filosofico, il nichilismo viene sconfitto su quello dell’esistenza: l’io personale negato teoricamente, risorge prepotentemente, nel quotidiano, con i suoi radicali bisogni.

Si tratta non appena di un istinto di sopravvivenza animale, ma dell’esigenza profonda di qualcosa che vada oltre la determinazione materiale e che, anche se in teoria la neghiamo, prorompe dal profondo del nostro cuore in modo irrefrenabile, soprattutto quando il nostro io è posto sotto attacco.

Racconto spesso ai miei studenti di un dialogo con un collega di scienze ateo. Si parlava di Dio e del cristianesimo, per lui menzogne del potere per tenere a bada l’uomo, roba per creduloni che la scienza aveva definitivamente smascherato. Ad un certo punto, però, mi colpì una sua affermazione: “tanto io lo so che di me rimarrà solo qualche atomo nell’universo!”. Gli dissi allora che questa sua credenza esprimeva una posizione fortemente “religiosa” ovvero il desiderio di vivere per l’eternità come un io personale non confuso con il tutto. Dopo un momento di stupore, il mio interlocutore ammise di non aver mai considerato la questione “religiosa” dal punto di vista del proprio io e volle continuare il dialogo, interessato a quella nuova prospettiva.

Questa invocazione risulterebbe quasi una bestemmia o l’ennesima trappola senza via d’uscita, un altro mattone del muro di isolamento che imprigiona tanti, giovani e adulti, se non ci fosse nessuno a raccoglierla, ad abbracciarla e ad accompagnarla per scoprire il Volto buono del destino che si è fatto compagno all’uomo, non quello oscuro e terrificante della natura dea matrigna che, come scriveva Leopardi, “non ha al seme dell’uomo più stima o cura che alla formica”.

“Non temete il grido del cuore che aspetta l’impossibile” scriveva Eliot. Sento in questi giorni drammaticamente importanti di essere chiamato a rispettare questo compito, con i miei cari, con i miei amici e con i miei studenti. Ma prima di tutti, con me stesso. Per far questo però, ho bisogno anch’io di veri amici.

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