Il libro di Paola Mastrocola e di Luca Ricolfi dal titolo evocativo Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo, 2021), è un libro interessante, sia per gli addetti ai lavori scolastici, sia per chi coltivi interessi più ampi, di natura socio-politica e in particolare di statistica. E infatti è un libro che sta vendendo molto, con il rischio di aumentare il gap fra scuola e società, di accentuare l’astio nei confronti del sistema scolastico.
Gli autori, marito e moglie, sono notissimi per i rispettivi campi d’azione: Mastrocola, che da alcuni anni ha lasciato la scuola, è stata per trent’anni docente di lettere nei licei e notissima scrittrice; Ricolfi è docente di statistica e commentatore su più testate, autore di saggi ma anche di testi più divulgativi come il recente Società signorile di massa.
Il tentativo dei due di integrare in un unico testo i reciproci punti di vista risulta interessante nella tesi: la società italiana non conosce più dinamicità e la stasi sarebbe principalmente causata dai limiti del sistema scolastico. Tale tesi riceve ampia documentazione dall’ampia trattazione della Mastrocola ed è solidamente supportata dall’acuta indagine statistica di Ricolfi.
L’origine di questo danno è rappresentata, per entrambi, dal post-Sessantotto. Per la scuola, in particolare, viene riconosciuta la catastrofe nella tragica riforma del 1962, con la nascita della scuola media unificata, accentuata da alcune storture della riforma Berlinguer; per l’università dalla riforma dei crediti, che ha rinunciato alle dinamiche più propriamente formative e culturali per costringere i docenti a selezionare progetti, pubblicazioni e a costruire un’organizzazione più mirata a una parvenza di pragmatismo efficientistico che allo sviluppo effettivo della ricerca.
L’anomalia del testo nasce dall’assenza, sicuramente voluta, di analisi di natura sociale. Nelle pagine del saggio, densissime ma anche molto fruibili, in alcuni tratti ironiche e quindi godibilissime anche ai non addetti, scuola e università sono al centro di un’ampia disamina senza che tuttavia gli autori si interroghino sui profondi cambiamenti che il mondo attorno alla scuola ha subìto.
Paola Mastrocola, qui come già in altri suoi testi, lamenta il peggioramento delle competenze di scrittura e lettura degli studenti liceali, regrediti ad una fase quasi afasica. Colpa di questa rovina sarebbe la rinuncia all’italiano, in particolare alla parafrasi, ai compiti a casa, essenziale pratica di consolidamento di quanto proposto a scuola. Nulla è però detto, forse lasciato implicito, di quanto nel frattempo sia cambiato, nell’organizzazione di vita, orari, nella relazione fra bambini e adolescenti e mondo degli adulti. Emblematico il capitolo in cui l’autrice racconta di sé, impegnata a trascrivere (e quindi inevitabilmente a imparare) i testi presi a prestito in biblioteca, accanto alla madre, modesta sartina torinese. Una scena certamente densissima di significati, ma lontana anni luce dal presente.
I nostri ragazzi non fanno i compiti non solo perché i docenti non glieli assegnano, ma perché la maggior parte, da sola, non li sa fare; o perché non italofona, o perché condizionata da disturbi di apprendimento, o perché più semplicemente da soli i compiti a 12, 13, 14 anni non si fanno! Chi oggi dei nostri ragazzi a casa trova una mamma che riconosca, con semplicità, ma anche con autorevolezza il valore dello studio? Molto pochi: la maggior parte degli studenti trascorre il pomeriggio ripiegato sullo smartphone a chattare di argomenti che con la cultura scolastica hanno poco a che fare.
Purtroppo anche i genitori sono sempre meno propensi ad accompagnare i figli nella fatica di imparare e non solo perché sprovvisti di strumenti per farlo o troppo impegnati nel lavoro. Talora anzi si sostituiscono ai figli, talora preferiscono commentare la vita scolastica in chat; certo la stima della mamma sarta per la scuola nel suo complesso, è rara. Di tutto ciò sembra che Mastrocola in questo libro non voglia occuparsi.
Anche noi siamo certi che la lettura delle grandi opere possa essere altamente formativa (l’Iliade nella versione montiana, per esempio), ma barriere di natura linguistica, operativa e di contesto si ergono tra il testo e lo studente.
Può accadere ancora che il fascino della grande opera si impossessi della ragione e del cuore del ragazzo, ma accade sempre più raramente. Accade dove l’adulto, si chiami D’Avenia, Affinati o più semplicemente l’insegnante di Portofranco (una delle più interessanti esperienze di aiuto allo studio) si renda disponibile, indichi i segni dei codici culturali, si pieghi a offrire con passione un repertorio culturale denso di significato, ma ora molto, molto lontano dall’eterno presente dei nostri adolescenti.
Ancora più drammatici i capitoli di Ricolfi che, con il rigore dei numeri che gli è congeniale, sostiene la tesi della moglie: la scuola italiana ha fallito perché nella maggior parte delle regioni non esercita più quella funzione di leva socio-economica, tradendo le attese di chi ancora si attende dall’istruzione un elemento di sviluppo e condannando proprio i più deboli a una staticità immorale per un paese che voglia rialzarsi.
I critici dell’Invalsi troveranno in Ricolfi una sponda, almeno parziale. Gli esiti delle prove per l’autore non dovrebbero essere utilizzati all’interno delle scuole, ma piuttosto sono utili nell’analizzare in generale l’effetto scuola nei vari contesti. Si coglierebbero molte contraddizioni regionali e si supererebbe l’annosa battaglia di Nord contro Sud: guardando all’effetto scuola con maggiore attenzione, si scoprirebbero dinamiche ben più raffinate.
Nel testo manca una pars construens che sarebbe potuta emergere da un’analisi di alcuni contesti di eccellenza dei quali mi permetto di sottolineare alcune caratteristiche:
– la profonda motivazione dei genitori a una formazione di qualità e una fiducia nei confronti della realtà scolastica possono favorire un clima in cui l’apprendimento, anche per i più svantaggiati, sia meglio garantito;
– la possibilità di scegliere i docenti in modo più efficace di quanto riescano a fare i pachidermici concorsi statali, ancora tutti concentrati (se va bene) sul possesso dei contenuti e pochissimo sulle competenze comunicative e relazionali, ormai essenziali quanto i primi;
– la presenza di docenti tutor che accompagnino lo studente anche in orario extracurricolare con una flessibilità oraria ai più ignota;
– un percorso costante di aggiornamento e formazione, nella scuola statale lasciato troppo spesso alla sola disponibilità del singolo.
Guardare a questi sistemi forse consentirebbe di intravvedere anche occasioni maggiori di mobilità sociale. Buone scuole in Italia ne esistono ancora: basta cercarle e dare loro spazio sui media.
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