La Camera ha approvato, col consenso, caso piuttosto raro, delle forze di governo e di opposizione, un disegno di legge per la re-introduzione dell’educazione civica in tutti gli ordini di scuola.

Cosa spiega il bisogno ricorrente di re-introdurre questa materia scolastica? La risposta è semplice: l’educazione civica non ha mai messo vere radici nella scuola italiana. Le ragioni di questa assenza non sono difficili da individuare.



Senza andare troppo indietro nel passato e scomodare la storia di Guelfi e Ghibellini, la società italiana dall’unità in poi è sempre stata spaccata in fronti contrapposti e ostili: prima cattolici contro laici (la Chiesa di Roma si era addirittura opposta all’unificazione nazionale), poi fascisti contro antifascisti, poi comunisti contro anticomunisti, ora anche europeisti contro sovranisti. Per non parlare di vere (o quasi) guerre civili che hanno accompagnato momenti cruciali della nostra storia.



In un paese spaccato, quasi tutto ciò che è politicamente rilevante diventa una lotta di civiltà lungo linee religiose e/o ideologiche. Come si fa a insegnare a scuola questioni oggettivamente controverse, dove spesso, se non gli alunni, le loro famiglie si schierano su fronti opposti?

Si è adottato implicitamente il principio che si può insegnare solo ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. A fasi alterne, un po’ di patriottismo va bene, ma la “politica” deve restare fuori dalle aule scolastiche. La politica, per definizione, ha a che fare con questioni controverse, dove si scontrano interessi materiali e anche ideali diversi; ignorare le controversie e i conflitti vuol dire ignorare la stessa democrazia in quanto modo “civile” di affrontare controversie e conflitti.



Così, da un lato, molti insegnanti hanno adottato la strategia di non affrontare mai questioni scottanti e controverse e, dall’altro lato, altri insegnanti, contravvenendo al principio implicito, hanno semplicemente usato la loro autorità cercando di indottrinare i propri alunni alla luce delle loro idee e scelte politiche. Ciò spiega come mai non ci sia stata, a scuola ma anche nell’opinione diffusa, una vera e propria elaborazione di che cosa sono stati il fascismo, oppure il comunismo e la stessa democrazia.

Una rimozione collettiva di nodi indispensabili per capire la storia del paese, che spiega anche il discredito della politica come cosa da cui tenersi possibilmente lontano se non ci si vogliono sporcare le mani, che è un tratto distintivo della cultura politica del nostro paese.

Affinché ciascuno sia in grado di farsi un’idea su questioni controverse c’è un’unica strada: imparare a confrontare opinioni diverse. Ed è qui che le scienze sociali (insieme alla storia) possono dare un contributo significativo. Nessuno è depositario di verità assolute, ma disporre di strumenti per valutare forza o debolezza di visioni contrapposte aiuta a correggere le lenti deformanti delle ideologie. La comparazione è la strada maestra per affrontare questioni intricate e controverse. Richiede anche una didattica diversa, non solo lezioni ex cathedra e interrogazioni, ma dialoghi, dibattiti, discussioni, approfondimenti.

Insomma, una didattica attiva, dove l’insegnante organizza processi di apprendimento che avvengono in classe, ma anche al di fuori. Non si tratta di trasmettere solo un sapere, ma di far nascere una consapevolezza della necessità di gestire le regole della convivenza in presenza di “normali“ diversità di interessi e opinioni.

Chi sa se questa volta sarà la volta buona per incominciare effettivamente un cammino nuovo in tema di educazione civica, civile, democratica, politica (c’è subito un problema terminologico)? La proposta di legge ora all’approvazione del Senato è, saggiamente, abbastanza generica. Dice che deve essere a costo zero. Quindi, non ore di lezione in più, non reclutamento di nuovi insegnanti, non indennità aggiuntive. È previsto un monte di 33 ore annuali da ricavare nel normale orario scolastico (auspicabilmente non soltanto riducendo le ore all’insegnamento della storia). È previsto anche un voto, ma nel caso di questa “educazione” se ne poteva tranquillamente fare a meno.

Speriamo che si apra nella società civile, tra gli insegnanti e tra gli studenti un ampio dibattito su come riempire questo “spazio aperto” offerto dalla nuova legge.

Qui mi limito a una proposta: dedicare una mezza giornata ogni mese (cioè, 3-4 ore nove o dieci volte all’anno, grosso modo le 33 ore previste dalla legge) a discutere un tema in classe suggerito dagli studenti o dagli insegnanti su qualcosa che è successo nella scuola, nella comunità o nel mondo nelle settimane precedenti e sul quale sembra importante che ci si faccia un’idea. Una finestra attraverso la quale far entrare il mondo nella scuola.

Se gli studenti capiscono che la scuola serve per leggere la realtà, non ci sarà bisogno del voto per motivarli (anche a studiare).