Molteplici e spesso contradditorie sono le richieste pubbliche e private che quotidianamente la scuola riceve: introdurre nella didattica le nuove tecnologie ed educare a un utilizzo eticamente ineccepibile dei social, ma al contempo vietare l’uso dei dispositivi; formare studenti preparati ad affrontare le sfide che la società attuale pone, tra cui la padronanza della lingua inglese e la conoscenza approfondita della matematica, ma evitare di chiedere un impegno personale gravoso nello studio e una responsabilità consapevole nella partecipazione alla vita scolastica; sviluppare il pensiero critico e l’attitudine al problem solving, ma abbandonare pratiche quali la traduzione dalle lingue classiche e la lettura di testi complessi dal punto di vista linguistico e letterario; educare all’inclusione e all’accoglienza del diverso, negando però l’esistenza del limite e della differenza.
Le riflessioni e i tentativi didattici dei docenti sono profondamente e sistematicamente messi alla prova da tali istanze e serpeggia la tentazione della rinuncia a istruire e a educare: come rimanere fedeli a ciò che ha originato tante buone scuole, ovverosia il desiderio di introdurre alla vita le giovani generazioni attraverso la conoscenza della nostra tradizione?
In un dialogo tra alcuni rettori di scuole paritarie in preparazione al recente Convegno Nazionale di Cdo Opere Educative dal titolo “Un’opera educativa cresce e matura perseguendo lo scopo che l’ha generata”, mi è stato suggerito di leggere il testo della lezione di Erik Varden all’Università di Navarra dello scorso 8 febbraio, dal titolo All’altezza della tempesta del cuore umano. L’evangelizzazione ai tempi della smemoratezza. Interrogandosi su come la Chiesa possa trasmettere il suo messaggio all’uomo contemporaneo, il vescovo norvegese cita due personaggi, che offrono qualche utile suggerimento anche per affrontare il guazzabuglio in cui la scuola, nella concretezza dei nostri tempi, è chiamata a operare: uno epico, Gilgamesh, e l’altro biblico, Isacco.
Il primo, re di Uruk, protagonista dell’epopea scritta più di 4000 anni fa, dice Varden, “esasperò il popolo di Uruk, che supplicò gli dèi di creare un eroe che potesse placare l’inquietudine del loro re: ìChe sia all’altezza della tempesta del suo cuore’, pregavano, ‘che possano competere tra loro, così che Uruk possa trovare pace!’. Quando Enkidu, l’amico eccezionale datogli dagli dei come compagno di viaggio fino ai confini della terra, muore, Gilgamesh, addolorato e terrorizzato di dover morire anche lui, inizia a vagare nella natura e corre contro il sole. Ma gli dei lo chiamano dicendo: ‘Gilgamesh, dove stai vagando? La vita che cerchi non la troverai mai’”.
Varden osserva che Gilgamesh “potrebbe essere nostro contemporaneo. È un megalomane, innamorato della sua abilità ma insicuro del suo scopo, perseguitato dalla morte, perplesso a causa del desiderio del suo cuore, coraggioso di fronte all’assurdo, ma oppresso dalla tristezza. Colpisce soprattutto il rifiuto di Gilgamesh di rimanere immobile. Quanto più forte è la sua disperazione, tanto più frenetico è il suo movimento: ricordiamo che cercò di superare il corso del sole. Questa attitudine è antica quanto l’umanità. Eppure mai prima d’oggi le donne e gli uomini sono stati così ben equipaggiati per assecondarla”.
La seconda suggestiva immagine che ci offre Varden è quella di Isacco, che, in fuga da una carestia, si reca nel territorio dei Filistei, a sud di Gaza. Qui prospera, suscitando l’invidia dei Filistei, i quali riempiono di terra i pozzi che Abramo aveva costruito per suo figlio e la sua discendenza. Isacco non si dà per vinto: “Riattivò i pozzi d’acqua, che avevano scavato i servi di suo padre, Abramo, e li chiamò come li aveva chiamati suo padre. Poi scavò una serie di nuovi pozzi”.
Per poter affrontare le sfide attuali senza lasciarsi inebetire dalle nuove e a tratti contraddittorie istanze, la scuola può prendere esempio da questi personaggi, considerando il tema della tradizione e dell’innovazione nella didattica senza contrapporre ciò che non ha ragione di essere contrapposto.
Innanzitutto è chiamata a fare una proposta didattica “all’altezza del cuore in tempesta” degli studenti, nella consapevolezza che al di là delle differenti condizioni in cui si trova l’uomo oggi, le quali esasperano tale tempesta, in fondo non sia diverso nella sua essenza dagli uomini di tutti i tempi.
In secondo luogo, la scuola deve riconoscere a sé stessa l’autorevolezza e prendere il coraggio di riaprire gli antichi pozzi, per guardare con occhi nuovi la tradizione, verificare ciò che in essa ancora vale e aprirne di nuovi, di inediti, per accogliere adeguatamente chi ha bisogno di abbeverarsi oggi, con la sua nuova sete, con i suoi nuovi bisogni e con i suoi nuovi strumenti.
Al convegno le scuole partecipanti hanno con umiltà e baldanza condiviso i tentativi messi in atto in tal senso: l’introduzione nella didattica curricolare di percorsi di drammatizzazione, dalla scuola dell’infanzia al liceo, per approcciare testi ricchi e complessi vivendoli in tutta la portata del loro significato e con l’interezza della propria persona, corpo, parola e intelletto; forme di lezioni impostate in modo da rendere lo studente realmente protagonista del suo percorso di apprendimento, così che possa scoprire nella costruzione comune del sapere l’irriducibilità della sua domanda di senso, la consapevolezza di avere un compito importante nella vita, il valore dell’altro come un bene per sé; tentativi di utilizzo, misurato e prudente, di nuovi strumenti tecnologici, informatici e di AI, con il desiderio innanzitutto di conoscerne scopi e funzioni, e non di usare indiscriminatamente le nuove tecnologie per essere à la page. Un convegno proficuo che ha aperto diverse piste di lavoro, anche perché in dialogo con il mondo dell’impresa e della ricerca: alcuni suoi rappresentanti, che hanno partecipato come relatori e uditori, si sono dimostrati sinceramente interessati a mettersi al servizio della didattica. Perché l’educazione è affare di tutti, non solo di chi fa scuola.
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