La scuola italiana anche in piena estate continua a macinare indisturbata il proprio frumento. Ci riferiamo alle immissioni in ruolo di nuovi docenti che vanno a ruota dell’impegno assunto dall’Italia nei confronti dell’Europa, riguardante 70mila nuove assunzioni entro il 2024.
La prima tranche (si prevedono oltre 50mila docenti tra scuola primaria e secondaria) entrerà tramite concorso ordinario a settembre. Andranno a concorso i docenti di sostegno inseriti nelle graduatorie provinciali per le supplenze, un certo quantitativo di docenti inseriti nelle graduatorie a esaurimento (che in realtà sono eterne) e infine i docenti aventi i titoli per partecipare (abilitazioni per quanto riguarda infanzia e primaria; laurea con 24 Cfu per quanto riguarda le superiori, oppure tre anni di servizio negli ultimi cinque). Una seconda tranche simile alla prima, dal punto di vista delle tipologie di docenti, dovrebbe essere avviata tramite bando a gennaio 2024.
In ordine all’avvio della procedura, il ministero dell’Istruzione e del Merito (Mim) ha predisposto, come già nel recente passato, l’informatizzazione della presentazione delle domande mediante la piattaforma Istanze OnLine, dove è possibile scegliere per la propria classe di concorso la provincia e l’opzione di sede. Al di là del complicato meccanismo utilizzato per individuare i posti e accogliere le richieste, proviamo a interrogarci su quale tipo di insegnante la scuola italiana intenda fare leva, nell’ottica di chi governa il carrozzone di Viale Trastevere, senza entrare nel merito della preparazione che dovrebbero conferire le lauree finalizzate al lavoro educativo. Non tutto è chiaro a causa, come sempre, di una sovrapposizione di visioni politiche diverse, corrispondenti alle scelte dei ministri che si sono succeduti negli ultimi tempi, nessuno dei quali ha resistito alla tentazione di fare la propria riforma.
La legge 13 luglio 2015, n. 107 (governo Renzi, ministro dell’Istruzione Giannini) specificava che il perno dell’istituzione scuola risiede nell’autonomia delle istituzioni scolastiche (di cui all’articolo 21 della legge 15 marzo 1997). Quindi, massima flessibilità nell’offerta formativa entro le mura scolastiche e nel contesto del territorio. A questo scopo è stato concepito l’organico dell’autonomia “funzionale alle esigenze didattiche, organizzative e progettuali delle istituzioni scolastiche come emergenti dal piano triennale dell’offerta formativa”. La medesima legge metteva in rilievo la necessità di potenziare negli alunni le competenze linguistiche e le competenze logico-matematiche. Un rilievo particolare era dato alla cittadinanza attiva e democratica attraverso la valorizzazione dell’educazione interculturale.
È poi giunto il Pnrr con effetto valanga: 6 riforme e 11 linee di investimento per la parte di competenza del Miur, che può disporre di 17,59 miliardi entro il 2026. E non sono solo fondi ma anche indicazioni su come e dove spendere. La riforma dell’orientamento, per esempio, introduce i moduli di orientamento nelle scuole secondarie di primo e secondo grado per non meno di 30 ore per le studentesse e gli studenti del IV e V anno. Ed è il tema sul quale si sono dibattute le scuole fino alla chiusura di giugno e che si riproporrà alla riapertura di settembre.
Nelle linee guida per l’orientamento scolastico firmate dal ministro Valditara è chiarito che nei prossimi anni scolastici l’orientamento sarà una priorità strategica della formazione dei docenti di tutti i gradi d’istruzione, nell’anno di prova e in servizio. Tali linee contengono indubbi punti di interesse, laddove nello specifico si fa riferimento all’aiuto che il docente è tenuto a riservare all’alunno, affinché si verifichi la “scelta di almeno un prodotto riconosciuto criticamente dallo studente in ciascun anno scolastico e formativo come il proprio capolavoro”. Molto bello e molto umano (o umanistico), si potrebbe esclamare, ma con quale metodo?
Certo è che il docente tutor e il docente orientatore diverranno le figure prevalenti nella scuola del prossimo futuro, con compiti che sono poi ulteriormente illustrati nei documenti relativi alla formazione in servizio dei docenti (vedi la circolare “Formazione dei docenti in servizio – anno scolastico 2022/2023”).
Le priorità, a quest’ultimo proposito, concernono l’incremento delle discipline scientifico-tecnologiche (Stem) e le competenze multilinguistiche, il discusso e discutibile sistema integrato 0-6 anni, l’integrazione e inclusione degli alunni nuovi arrivati in Italia (Nai) e altro ancora. Se queste tendenze di tipo politico-culturale saranno mantenute è evidente che l’interlocutore principale della componente docente, vecchia e nuova, sarà il ministero più che la scuola dell’autonomia, con qualche inevitabile irrigidimento delle pratiche didattiche, in qualche modo curvate verso obiettivi di sostanziale omogeneità sociale.
Un simile centralismo non solo istituzionale ma anche pedagogico e culturale rischia di essere rafforzato da una serie di entità collaterali (case editrici e aziende orientate alla digitalizzazione dei processi conoscitivi) che fornendo gli strumenti innovativi di cui la scuola dovrà dotarsi finiscono anche per incidere sulla formazione delle conoscenze da trasmettere. Insomma, mentre si aprono i percorsi di reclutamento, sembra legittimo chiedersi quale spessore umano il docente intenda e possa avere. Con quale impeto e giudizio egli possa entrare nell’agone periglioso, ma carico di interesse, rappresentato dalla scuola nell’attuale frangente storico.
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