Ieri, sul Corriere della Sera, è comparso un articolo che anticipava le modalità concorsuali del nuovo bando per dirigenti scolastici. Tra di esse si poneva l’attenzione su una regola per stabilire, a parità di punteggio, la precedenza tra due concorrenti. Ebbene, nel caso che uno dei due sia un uomo e l’altro una donna, avrà la prevalenza il primo, poiché tra i dirigenti prevalgono di gran lunga le donne e la pubblica amministrazione prevede un equilibrio di genere che, nel mondo della scuola, penalizza gli uomini.



La cosa appare bizzarra, se si considera che in quasi tutti gli altri ambiti dirigenziali le percentuali di uomini e donne si invertono a vantaggio dei primi e per questo è nata la prassi delle quote rosa. Tra i dirigenti scolastici, invece, sembra porsi l’esigenza di “quote blu”. La questione delle quote, tuttavia, se esaminata dal punto di vista personale, può apparire perfino umiliante, nel momento in cui il genere sessuale sopravanza il merito. Certamente una tale misura discriminatoria, in questo caso positiva e cioè finalizzata a compensare una situazione svantaggiosa, ha una sua ragion d’essere. Nel caso delle quote rosa, essa riguarda molte donne che nel mondo del lavoro e della politica sono penalizzate. La misura, tuttavia, si pone a valle, spesso lasciando inalterati i meccanismi discriminatori, quelli sì negativi, che si pongono a monte e che penalizzano le donne nella carriera, nello stipendio, nelle condizioni lavorative. Si ha come la sensazione che essa nasca per tappare una falla mentre l’imbarcazione fa acqua da tutti i lati. Viene anche da pensare che con quella misura si rasserenino le buone coscienze di chi non è stato in grado di cambiare la situazione.



Vediamo adesso cosa succede nel mondo della scuola, dove il corpo docente è in stragrande maggioranza femminile. Non fosse altro che per una questione statistica, se la maggioranza di coloro che si candidano al ruolo dirigenziale è composta da donne, è altamente probabile che esse risultino preponderanti anche tra i vincitori di concorso (dovrei aggiungere la formula “a parità di altre condizioni” con i maschi. Ma in questo caso, è cosa nota, le donne sono anche più studiose e preparate di molti uomini).

Varrebbe la pena di affrontare il discorso sulla femminilizzazione del lavoro docente, ma non è possibile in questa sede. Tuttavia vogliamo evidenziare un dato. L’insegnamento è un’attività che consente una certa quota di tempo libero, infatti le ore settimanali per le maestre sono 22 (più due di programmazione) mentre quelle degli insegnanti delle superiori sono 18. Va da sé che quella quota generalmente viene destinata, meritoriamente, alla famiglia. Sebbene le incombenze lavorative aumentino, la maggior parte dei docenti – stando alle ricerche – rifarebbe le stesse scelte lavorative, tornando indietro nel tempo. Dunque, sebbene i lati negativi del lavoro docente siano molteplici (aumento della burocrazia, scarso stipendio) essi sono compensati da quello positivo della disponibilità di tempo. Anche per questo, nella scuola, si ha una stragrande maggioranza di donne.



Se si accetta questo equilibrio sui generis, inevitabilmente si avrà il primato numerico delle donne. Altrimenti varrebbe la pena di ammettere la candidatura a dirigente scolastico anche di persone esterne al mondo della scuola, non necessariamente docenti. Ovviamente, queste persone dovrebbero avere tutti i titoli e la debita preparazione, anche pedagogica. Ciò significherebbe, tra l’altro, interrompere il meccanismo di riproduzione culturale (così direbbero i sociologi) che nasce quando i ruoli interni a un sistema sono attribuiti a persone che si sono formate al suo interno. Quando ciò accade, il cambiamento del sistema è improbabile.

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