Per tante persone il vero Capodanno non coincide col 1º gennaio, ma forse ancor di più con l’inizio di settembre, questo mese che segna un passaggio non solo meteorologico ma di rapporto col tempo, in cui si ricomincia con le proprie abituali attività o se ne iniziano di nuove; in cui si ha – per un istante o più a lungo, finché non si viene rifagocitati nella routine – la percezione di un nuovo anno che inizia. A questa percezione contribuisce la scansione dell’anno scolastico, cui da sempre grandi e piccini sono abituati. E allora come non pensare alle decine di migliaia di studenti e docenti che in queste settimane sono tornati in aula?



Quella percezione di un nuovo anno che inizia porta sempre con sé (per chi più, per chi meno) una sorta di curiosità, di freschezza, di speranza in certi casi: dalla più imminente speranza di superare gli esami di recupero, al desiderio – per chi ha da scegliere la nuova scuola o la nuova università – di prendere la decisione giusta, di trovarsi bene, di incontrare compagni interessanti, studenti interessanti, di potersi fare degli amici. Insomma: di poter essere contenti in quell’anno o negli anni a venire. Di poter essere felici, per chi osa attendere questo e ammetterlo a parole.



In questi giorni mi sono trovata ad avere dialoghi con persone diverse e distanti tra loro; dialoghi ripensando ai quali è sorta in me l’evidenza di un comun denominatore, non diverso da quell’attesa, da quel desiderio di bene e di bello di cui sopra.

Ho potuto ascoltare i racconti e le considerazioni di uno studente alla fine del suo primo anno di università, trasferitosi dal profondo Sud al profondo Nord, che tra la passione per l’ingegneria informatica, il tentativo di spiegarmi il concetto di “fasone” legato al moto atomico, ed altre definizioni assai complesse, mi raccontava della fatica di trascorrere quasi dodici ore al giorno a lezione, del bisogno di poter contare su alcuni amici, della scarsa qualità della mensa universitaria, del desiderio di poter essere coinvolto nel lavoro con docenti e altri studenti. Di un’esperienza, insomma, che coinvolge la vita, e non solo i crediti da acquisire nel semestre; una vita in cui è tutto unito, tutto insieme, e in cui tutto conta a modo suo.



Oppure le preoccupazioni di una giovane laureata alla triennale, che di fronte alle diverse possibilità su quale ateneo scegliere per proseguire i suoi studi o il piano di studi da stabilire, si chiede quale sia la decisione migliore, e quali siano i criteri da adottare, le responsabilità da fronteggiare. Quelle domande che, mutatis mutandis, ci si continua a porre sempre nella vita, specialmente nei momenti di passaggio. Ancora una volta, questioni che intercettano un’esperienza complessiva, l’esperienza di sé nel mondo, di chi si è, di chi si vuol essere, di ciò che si desidera o che ancora non si sa di desiderare.

Tra i numerosi incontri e dialoghi estivi ce ne sono stati alcuni, con un gruppetto di ingegneri informatici, in cui sono stata più frequentemente coinvolta. Così ci si è ritrovati, sotto l’ombrellone, a discutere di Machine Learning, AI, PHP, React, linguaggi di scripting, UX, librerie GitHub e tanto altro. L’occasione più significativa è stata la domanda di una ragazza (laureata in lingue) che in quei giorni aveva assistito a quei dialoghi, la quale, durante una cena, mi ha detto: “Però qui siete tutti ingegneri informatici, solo io ho fatto altro”. Mi ha fatto sorridere l’espressione di stupore e sconcerto quando le ho detto che neanche io ho studiato ingegneria, bensì filosofia.

Di fronte a quella sua sorpresa, la percezione in me dominante è stata quella di una sorta di gratitudine e di ironica consapevolezza a posteriori: a posteriori rispetto al giorno, di qualche anno fa, in cui decisi di iscrivermi a filosofia. Ero mossa a quel tempo da numerose passioni (per le materie umanistiche, ma anche per le scienze, prima tra tutte l’informatica), ed evidentemente era impossibile approfondirle tutte all’università. Il criterio, il desiderio che avevo era però uno: come fare a non perdere niente di ciò che amo, di ciò che mi piace, pur non potendo studiare tutto? Mi sembrava che lo studio della filosofia – per motivi pratici, come il fatto di poter inserire nel piano di studi anche esami diversi, e per ragioni ideali – rispondesse a questa esigenza. Rispondeva esattamente nel senso in cui si fa esperienza di tutto quando si vive una grande passione, un grande amore, un punto di libertà capace di abbracciare tutto il resto e tutti gli altri, pur non potendo fronteggiare ogni cosa.

“Nell’esperienza di un grande amore – scrive Romano Guardini – tutto il mondo si raccoglie […] e tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito. L’elemento personale a cui in ultima analisi intende l’amore e che rappresenta ciò che di più alto c’è fra le realtà che il mondo abbraccia, penetra e determina ogni altra forma […]”.

Ascoltare da una parte questi ragazzi che si trovano all’inizio o nel mezzo del loro percorso di studi, e dall’altra parte – quasi in contemporanea – dialogare apertamente con amici diventati ormai professionisti e adulti mi ha fatto accorgere di una duplice realtà.

Primo: in qualsiasi età si sia, qualsiasi sia il proprio stato di vita, l’attesa è sempre la stessa, aspettiamo tutti in fondo la stessa cosa: di essere sorpresi, di essere contenti, di trovare qualcosa o qualcuno che “non sia inferno”, nel rapporto col quale poter lavorare bene, scoprirsi vicendevolmente, poter essere sinceri e sé stessi, e allora respirare aria fresca, crescere (anche se si è già grandi).

Secondo: il livello diverso di discorsi avuti con giovani studenti o con persone già formate, nel pieno della loro carriera, mi ha fatto contemporaneamente fare un salto a quel momento della vita in cui tutto era ancora da decidere, e al momento (attuale) in cui le cose hanno già preso una forma, una direzione; e mi ha fatto accorgere della bizzarra condizione per la quale se è vero che tante cose diventano col tempo più difficili, altre si semplificano, e viceversa. Così tutto, ogni istante e ogni età della vita, mi sembra attraversata da un’unica comune condizione: tutto — il dover scegliere il proprio futuro o l’averlo già direzionato — può essere il più grande limite o la più grande opportunità.

L’ironica consapevolezza a posteriori che la domanda di quella ragazza mi ha sollevato è proprio quella di una specie di promessa mantenuta: ad oggi posso dire che è vero che è possibile non perdere niente, è vero che nell’esperienza di un grande amore tutto viene accolto, raccolto, ritrovato, scoperto, anche ciò che sembra più distante, anche ciò che sembra(va) perduto. Naturalmente questo non ha a che fare con un magico destino, ma con una buona dose di dedizione personale, di lavoro, di tentativo di mantener fede a quel desiderio (e così studiare anche ciò che non è immediatamente necessario, interrogarsi, essere in relazione con tutto e tutti). Di impegnarsi, tenere gli occhi e la ragione aperti ed essere in rapporto con quel pezzo di realtà che può farsi sempre più grande, sempre più pieno di speranze e promesse che si scoprono nel tempo mantenute, o sempre più piccolo, più scettico, a seconda di ciò cui si guarda, cui si aspira, e degli amici che si sceglie di seguire, di amare.

E così tutto diventa occasione. Anche i pessimi pasti della mensa universitaria.

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