Caro direttore,
la recente uscita del segretario del Pd Enrico Letta al Meeting di Rimini sul prolungamento dell’obbligo scolastico fino alla maturità ha fatto scatenare i fischi della “platea di Cl” non perché i presenti fossero contrari a garantire per tutti i giovani una formazione adeguata per entrare nella cosiddetta “vita attiva” (che non è appena avere un lavoro, ma una formazione adeguata ad affrontare tutta la complessità del reale), ma perché sono contrari, come lo è il sottoscritto, che questo venga imposto per legge dallo Stato prima che lo Stato intervenga perché l’obbligo abbia le caratteristiche di essere veramente la tutela di un diritto per tutti (dentro cui ci sta anche la libertà di frequentare le scuole superiori non statali).



Tanto per essere chiari, se un’alta percentuale di giovani lascia la scuola prima della conclusione del ciclo secondario superiore o comunque rientra nella categoria dei “Drop out” o dei “Neet” (né scuola né lavoro), questo non è perché non sono “obbligati” a rimanere dentro i percorsi formativi, ma perché non sono opportunamente aiutati a rimanervi. Abbiamo già visto il disastro quando, con la legge Berlinguer, tutti i giovani erano obbligati a frequentare un biennio delle superiori e questo ha generato ancora più disuguaglianze fino a che non è stata inserita almeno la formazione professionale regionale che però in molte regioni è ancora molto carente.



Questo è avvenuto anche per un retaggio statalista che fa coincidere l’obbligo di istruzione (garantito dal dettato costituzionale) con l’obbligo scolastico (cioè frequentare le scuole decise dallo Stato). Diritto e tutela della formazione per tutti almeno fino a 18 anni si raggiungono innanzitutto non con una legge che obbliga il cittadino ad andare a scuola, ma con una o più leggi che obbligano lo Stato e le Regioni a realizzare un’offerta formativa differenziata e flessibile, ricca di percorsi adeguati alle esigenze dell’altrettanto differenziato mondo giovanile.

Lo scrivevo già nella Rivista Libertà di educazione nel 1993 a proposito della scuola media “obbligatoria” che un rapporto Censis di quegli anni indicava come “l’esempio più eclatante di una cultura istituzionale che confonde la tutela con l’uniformità e l’uniformità viene sancita con la legge e la legge viene fatta osservare attraverso procedure, non già attraverso il controllo e la valutazione dei processi”.



Sempre in quella rivista citavo la Risoluzione dei ministri della Pubblica istruzione (allora si chiamavano così) della Cee sulla lotta contro l’insuccesso scolastico in cui si affermava che occorre: diversificare le strategie e i metodi proposti; attuare pedagogie differenziate; migliorare e diversificare i ritmi scolastici; migliorare l’orientamento degli alunni in funzione dei loro gusti e delle loro capacità.

Da allora certamente si è fatto molto ma non ancora in modo almeno sufficiente perché l’obbligo di istruzione fino a 18 anni non sia un’imposizione statalista, ma l’esercizio di un diritto.

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