Un vecchio aforisma pedagogico dice che il verbo “imparare” non ha il modo imperativo. Sotto l’enunciato paradossale, si cela un dato di fatto ben noto a tutti gli insegnanti: l’alunno “impara” solo se “vuole” farlo, cioè se è sorretto da un interesse cognitivo o da una motivazione di qualunque origine verso l’oggetto di conoscenza. Non impara, anzi si chiude a riccio, se si cerca di imporgli l’apprendimento solo come un obbligo giuridico o disciplinare.



Questa constatazione, che è vera sempre, lo è ancor di più nella fascia di età che va dai 14-15 ai 19 anni, cioè quella che attualmente vede cessare l’obbligo di istruzione a 16 anni e gli ultimi tre “scoperti”. Non è un caso se le percentuali di insuccesso scolastico si concentrano negli ultimi due anni prima della conclusione dell’obbligo, cioè nei primi due anni delle superiori. È la fase in cui il giovane pre-adolescente comincia a prendere consapevolezza di sé e di quel che vuole (anzi, inizialmente, soprattutto di ciò che non vuole) e del fatto che può, di fatto, ribellarsi.



Questo è uno dei motivi per cui in quasi tutti i Paesi l’obbligo giuridico di istruzione si ferma intorno ai 16 anni, con rare eccezioni (che, per la verità, tendono a diventare più numerose negli ultimi tempi – si veda la Francia).

Fra le proposte formulate dal Partito democratico, nella sua recentissima assise di Contigliano, troviamo anche quella dell’innalzamento dell’obbligo a 18 anni. Si tratta di una formulazione solo enunciativa, all’interno di una serie di altre, e non di un’analisi accompagnata da elementi che la giustifichino e le diano una fisionomia compiuta. Del resto, non era quella la sede.



Chi scrive non è, in linea di principio, contrario all’idea, in quanto è da tempo evidente che la nuova frontiera delle competenze minime di cittadinanza è ormai la conclusione degli studi superiori e non più quella costituzionale degli otto anni di istruzione, pensata in un tempo molto lontano e diverso dall’attuale. Però ritiene che la riflessione debba essere condotta in termini diversi e più ampi e non circoscritta, in maniera semplificatoria, a un mero innalzamento dell’obbligo giuridico.

Le questioni sono fondamentalmente due: la prima, se – di fronte alla disaffezione e all’insuccesso di così tanti giovani – la risposta di un obbligo più stringente e prolungato sia quella giusta; la seconda, se – dato che si tratta di una riforma costosa – sia anche quella su cui conviene spendere con priorità le risorse che è ragionevole ritenere acquisibili.

Sul primo punto, ci sarebbe da chiedersi perché, ancor oggi, oltre il 15% dei giovani decide di lasciare gli studi senza completarli, oppure ne viene espulso per somma di ripetenze. Di fronte a una terapia che non funziona, sarebbe doveroso interrogarsi, in primo luogo, sulla sua adeguatezza, prima di aumentare il dosaggio. E la verità è che la terapia è inadeguata, principalmente per due motivi, troppe volte individuati e indagati perché qui si abbia a dimostrarli di nuovo nel merito. Basterà citarli.

Il primo è l’eccessiva rigidità dei piani di studio: una volta iscritti a un indirizzo a 14 anni, non è consentita più alcuna scelta personale per i cinque successivi. Così, un eventuale errore di valutazione non ammette altra via di uscita che l’abbandono. Se vi fosse, come sarebbe doveroso e come è il caso di molti paesi, un articolato sistema di opzioni e di passerelle, gli errori di orientamento sarebbero rimediabili e, comunque, sarebbero maggiori le probabilità che il giovane trovasse in ogni percorso motivi di interesse e spazio per sviluppare le sue potenzialità.

Il secondo risiede nell’inadeguatezza delle metodologie e dei presupposti didattici rispetto ai fini dei diversi indirizzi, in particolare di quelli tecnici e professionali, che – non a caso – sono quelli in cui si registrano gli insuccessi più numerosi. Si vuol dire che gli ordinamenti sono fondamentalmente ispirati a principi “liceali”: metodo deduttivo e pensiero teorico astratto ne sono ancor oggi i pilastri.

Non che non si tratti di pilastri solidi e che hanno fatto le loro prove: solo che sono quelli dell’insegnamento umanistico, almeno dai Gesuiti in poi. Vanno ancora benissimo per i licei, i cui risultati sono – nelle prove internazionali – spesso al di sopra delle medie più lusinghiere. Sono invece dei veri e propri killer silenziosi nei tecnici e ancor più nei professionali, che dovrebbero essere molto più concentrati sulla didattica esperienziale e sul metodo induttivo.

A parole, talvolta, lo si dice: ma basta guardare agli ordinamenti (Dpr 87, 88 e 89 del 2010) per rendersi conto che larghe parti, e proprio quelle relative alle finalità e ai metodi, sono scritte con il metodo del copia-e-incolla fra i tre indirizzi e seguendo di fatto la filosofia pedagogica dei licei. E, del resto, basta guardare quante ore sono dedicate alle lezioni frontali e quante alle esercitazioni di laboratorio per averne la prova.

Insomma, le ragioni dell’insuccesso e della dispersione sono molte, ma in larga misura affondano le proprie radici nella persistente resistenza del nostro sistema scolastico a prender atto che la scuola di tutti non può continuare a ispirarsi al modello della scuola di élite, frequentata dal 10-15% dei giovani. Se prima l’orientamento avveniva per esclusione, oggi deve avvenire per differenziazione: dei metodi oltre che degli obiettivi e dei contenuti.

Si accennava prima alla questione delle risorse necessarie e delle priorità sul loro utilizzo. Benché non sia il focus di questa riflessione, chi scrive vuole esprimere il suo parere al riguardo. Volendo estendere l’area dell’obbligo al di là dei suoi confini attuali, sarebbe forse più utile partire dall’altro estremo: cioè farla iniziare dalla scuola dell’infanzia, a tre anni di età.

È vero che, almeno ufficialmente, i tassi di iscrizione sono già oggi molto alti, nell’ordine del 90-95%. Ma, anche a non voler scavare troppo nell’attendibilità di quei dati, soprattutto in alcune Regioni, è anche vero che quel 5-10% di non frequentanti è poi, quasi in blocco, lo stesso contingente che ritroveremo nelle statistiche dell’insuccesso dodici anni dopo. Si perderanno per primi quelli che hanno avuto accesso all’istruzione per ultimi. E non è un caso.

I bambini che non hanno accesso alla scuola dell’infanzia provengono in primo luogo da ambienti sociali economicamente e culturalmente deprivati. Tenerli sei anni, invece di tre, al di fuori di ogni opportunità formativa significa predestinarli all’emarginazione futura. Ancora: è intorno ai tre anni e dopo che si forma e si struttura il linguaggio, su cui, ulteriormente, si costruiscono la concettualizzazione e l’apprendimento. Chi cresce in un contesto di linguaggi poveri e marginali non acquisisce (o acquisisce solo in parte) gli strumenti per costruire apprendimento ricco di stimoli intellettuali e di significati. E si potrebbe continuare: ma non è questa la sede per farlo.

In definitiva, sono e resto convinto che – se ci sono, o se verranno trovate, risorse da spendere nell’ampliamento dell’obbligo – queste saranno meglio utilizzate e generatrici di migliori esiti futuri se investite nei primissimi anni di vita, per ridurre l’area e la profondità dello svantaggio cognitivo e relazionale. Come sono convinto che, per questa via, si ridurrebbe anche, a termine, il problema all’altra estremità del percorso, cioè al termine dell’obbligo. Ragazzi messi in condizione di pensare meglio e di muoversi con agilità nel mondo delle idee e dei concetti avranno minori difficoltà nel seguito degli studi e saranno meno esposti alla tentazione, o alla condanna, dell’abbandono.

E questa, per un movimento politico come il Pd, sarebbe probabilmente la buona battaglia che val la pena di combattere per la giustizia sociale sostanziale e non solo per il suo simulacro formale.