Per anni il mio interesse didattico dominante è stato l’insegnamento del metodo di studio, senza rendermi conto del nesso generativo tra metodo e valutazione. Di essa non sopportavo l’ambiguità delle situazioni e l’enfasi delle prove e dei voti, che consideravo accessori all’insegnamento, utili al massimo per spintonare gli alunni a studiare. E grande era il mio disagio.
In questo contesto capitò che un pomeriggio, nella libreria della stazione di Padova, dov’ero andato proprio per una conferenza sull’insegnare un metodo, incappai in un testo di Olivier Reboul, filosofo dell’educazione, vissuto nel secolo scorso, dal titolo molto significativo: Apprendimento, insegnamento e competenza scolastica (1988). Lo divorai con avidità e continuo a ruminarlo perché mi aiuta a riflettere sul nesso tra insegnamento, apprendimento, competenza e valutazione.
L’insegnamento, secondo Reboul, è un servizio: non ha fine in sé stesso, deve fare apprendere, comprendere, intraprendere. Per compiere in modo efficace questo servizio la scuola conferisce al docente tre poteri: la disciplina, la programmazione, la valutazione.
Sul “potere” della valutazione il suo giudizio è perentorio: dei tre, è “il più alto di tutti”, perché è “più carico di conseguenze” in quanto intende “emettere un giudizio di valore in termini quantitativi pur restando nel campo del soggettivo e del vago”.
La lettura del suo libro suscitò in me diverse domande. Una è questa: il potere di valutare è accessorio o intrinseco all’insegnamento? Reboul non risponde. Si limita, prima, ad annotare un’osservazione per me inizialmente incomprensibile: “Ogni insegnante ha il suo doppio in un valutatore” e, immediatamente dopo, a porre un interrogativo: “È un bene o un ripiego?”.
Si intuisce che per lo studioso francese siamo davanti ad uno degli aspetti più delicati di quello che potremmo definire il caso serio della scuola moderna: la valutazione educativa. Forse per questo la sua affermazione è categorica: “Tout enseignant est doublé d’un évaluateur”.
Cosa significa? Cosa indica questo termine “doppio”, usato come sostantivo nella traduzione italiana, mentre nell’originale francese è participio passato del verbo doubler?
Chi è questo “valutatore” che entra nella professionalità del docente come “aggiunto” (o doppione): per sostenerlo? Per rimpiazzarlo? Per altro? Perché l’insegnante non valuta per quello che egli è (dovrebbe essere): maestro appassionato, capace di programmare la disciplina, proteso a fare gli interessi di ogni ragazzo/a, consapevole che c’è in ballo la sua identità, la natura dell’insegnamento, lo scopo della scuola?
Per rispondere a questi interrogativi provai innanzitutto a mettermi nei panni degli alunni, facendo sistematicamente e criticamente “mio” il loro punto di vista sul perché e sul come apprendere, sulle ragioni della valutazione, sul significato e le modalità dei voti.
Guardandoli in faccia, intuivo che la valutazione o è un gesto “magisteriale” che li accompagna sulla strada della conoscenza, oppure è una procedura estrinseca all’insegnamento, imposta dal “doppio”. Osservando i comportamenti di certi colleghi, soprattutto in certi consigli di classe, dove l’essere docenti era espressione di un potere più che di un’autorità, notavo che il voto proposto dal collega era espressione individualistica di sé come l’unico ed assoluto arbitro della situazione. Da preside vedevo scatenarsi battaglie in cui generalmente dominava il “valutatore”, quel “doppio” a cui interessa più il controllo che la crescita integrale dell’alunno, più la misura che l’avventura della conoscenza. Mi vengono in mente certi docenti, che chiamati ad alzare la mano per pronunciarsi in modo definitivo su un voto o su una decisione del consiglio di classe, si bloccano: non sanno prendere posizione. Sono dilaniati interiormente e vorrebbero fuggire da quel luogo, da quella contrapposizione drammatica, interiore, tra l’io-insegnante e l’io del docente-valutatore.
Valutare non è controllare mimetizzandosi inconsapevolmente nel “doppio ruolo” (maestro-funzionario), fissarsi su schemi, limitarsi solo ad alcuni fattori (solo cognitivi, solo sociologici, solo affettivi). È “servire” evitando il “doppio” che ha il volto ripugnante e i gesti violenti di mister Hide di Stevenson, che opera nella notte dell’irrazionalità per conto della razionalità scientifica strumentale.
Il doppio è il signore delle misure, della media aritmetica, delle curve mortifere degli apprendimenti, “il padrone assoluto dei suoi voti… Perché sono nella sua anima e nella sua coscienza da lui messi con decisione insindacabile … L’onnipotenza del voto: un piacere che viene dall’inferno” (P. Ranjard). Con questo non intendo fomentare la polemica pro o contro il voto numerico, ma riflettere sul senso che esso ha oggi, per noi e per gli altri attori della valutazione.
Occorre che la valutazione non sia più prigioniera del “doppio”, delle sue maschere, dei suoi riti, che perpetuano dentro una situazione di ripiego il disagio dei docenti, dei genitori, degli studenti. Occorre cambiare mentalità (disposizioni ed atteggiamenti), mutare prospettiva, usare strategie e tecniche valutative alla luce della dignità e del destino proprio ed altrui.
Come? Diversi sono i modi per sganciarsi dalle funzioni che il “doppio” vorrebbe (potrebbe) assumere nell’attività valutativa al posto del docente. Uno è riflettere sulle posture valutative, ovvero sull’insieme di atteggiamenti (interiori e corporei), di sguardi e di gesti indicativi di intenzioni nel rapporto con chi (oggetti, fatti, persone) ci sta di fronte. Ne parliamo prossimamente.
(1 – continua)
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