Un recente studio condotto dalla casa editrice Erickson, che ha coinvolto quasi 2mila docenti di ogni ordine e grado, ha rivelato che oltre il 70% degli insegnanti continua ad utilizzare la lezione frontale nella maggior parte delle ore di insegnamento. Le metodologie didattiche all’avanguardia occupano una parte importante del monte ore alla scuola primaria, ma calano radicalmente nei livelli superiori della scuola secondaria di primo grado e ancor più fortemente nella secondaria di secondo grado. Solo l’utilizzo della tecnologia in classe sembra diffondersi in maniera uniforme tra i docenti.



Per Erickson, dunque, tanto più si sale verso l’esame di Stato, quanto meno i docenti sono disponibili a innovare la metodologia di insegnamento. Così facendo la didattica rimane ancorata al poco efficace modello tradizionale.

L’interpretazione del dato potrebbe però avere una lettura diversa. Se fosse semplicemente che argomenti più complessi necessitano di un bagaglio di base per venire adeguatamente compresi? E se tale bagaglio si comunicasse in modo più economico ed efficace attraverso la spiegazione frontale del docente o traendolo direttamente dal libro di testo?



Lezione frontale significa un fiume di parole e concetti rovesciati sulle spalle dei ragazzi per decine di minuti consecutivi un’ora dopo l’altra, mattina dopo mattina e settimana dopo settimana. Ma siamo sicuri che la scarsa attrattiva che la scuola provoca sulla maggior parte dei giovani sia da addebitarsi solo o principalmente al modello di lezione adottato?

Chi o che cosa innova la didattica? E se il cuore della lezione fosse un altro? E se il vero protagonista della didattica fosse invece il docente?

Penso sia capitato a tutti di constatare che dove insegnano professori o maestri appassionati e capaci, gli alunni di qualsiasi età se ne accorgono e ne sono consapevoli anche i loro genitori che in classe neppure entrano.



Ma quale docente innova? Quello “opportunamente formato” dai tanti corsi di formazione? No, non quello “addestrato” anche alle più efficaci tecniche di didattica innovativa. Perché non è la tecnica il motore della rivoluzione, ma la persona del docente. Se questa brucia di vita viva, può avere qualcosa di interessante da mostrare ai propri alunni, altrimenti non ci sarà tecnica che tenga nel tempo. Infatti lo “stile adottato da un docente” è diretta conseguenza della sua persona e del suo desiderio di incontrare i propri alunni là dove sono col cuore e con la testa; di incontrare la loro fame di vita e le ferite che li paralizzano, per spalancare loro una finestra nuova da cui affacciarsi e approfondire domande e cercare risposte. Solo un adulto ancora desideroso di imparare dalla realtà che tratta nelle proprie lezioni (e non solo da quella) può trovare la strada per incontrare e risvegliare i suoi studenti. Senza questo è solo noia.

“Il desiderio del professore è desiderio per il sapere, è desiderio di insegnare senza che vi sia una finalità intenzionale di formare. È il desiderio di insegnare, unito ovviamente alla conoscenza di ciò che si insegna, che produce effetti di formazione” (Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, 2014, p. 103). Perché un docente vivo si assume dei rischi e scommette sul cuore che batte nel petto dei suoi alunni, dando seriamente credito ai loro tentativi di risposta e di scoperta (quand’anche questi tentativi si manifestino in modo caotico o inopportuno), non come l’applicazione di un protocollo, ma come una guida che tifa per i tentativi di azione dei propri ragazzi. Tentativi tanto più seri quanto più attratti incomprensibilmente da una realtà sconosciuta fino alla lezione precedente.

Per evitare di rimanere nel vago provo a documentare uno di questi tentativi attraverso la trascrizione di parti di due lezioni dialogate di italiano svolte recentemente in prima media, dove a tema c’è “La descrizione della natura”.

Dopo la lettura ad alta voce di un testo di Bonaventura Tecchi, una descrizione di una ventina di righe di un olmo robusto sorto in mezzo alle pietre e dalla forma particolare, per nulla lineare, chiedo: “Reagite al testo senza la preoccupazione di interpretarlo. Avete qualcosa da dire? Vi è piaciuto?”.

Rispondono in molti: “È bello!”. Ribatto: “Provate a dire cosa è bello”. Una ragazza: “Non ho capito se l’albero è bello o brutto”. Un alunno: “Sembra che abbia una storia difficile”. Un altro: “Sembra che non sia descritto un albero ma un uomo”.

Riprendo: “Cosa te lo fa pensare? Cerchiamo nel testo la conferma a questa giusta intuizione”. Cominciano a uscire i termini seminati nel brano, come gambe, torace, ossa, pelle riferiti all’olmo descritto.

Nella lezione successiva analizziamo passo passo il testo scoprendo il lessico utilizzato, individuando nomi, aggettivi e le numerose immagini che lo compongono in modo così espressivo. Fino al finale che qui riporto e sul quale non avevo però previsto di soffermarmi:

“Tutta l’intelaiatura del corpo, così nelle parti interne che in quelle periferiche, era senza respiro, senza foglie, come morta, ma insieme si sentiva che era in agguato: non per evitare la morte ma per riavere, in quell’inizio ritardato di primavera, la vita”.

Ripropongo la domanda iniziale: “Ora che abbiamo lavorato sul testo proviamo a rispondere nuovamente alla domanda: la descrizione è bella? Perché?”.

Risposta: “L’albero è descritto nei particolari”. Ribatto: “E quindi? Perché questo dovrebbe rendere bello il testo?”. Risponde uno: “È un albero sofferente”. Ribatto: “E quindi?”. “Una ragazza dice: “L’autore spera che l’albero ridiventi bello”.

Di nuovo io: “Perché ci tiene tanto? Tecchi è stato forse un giardiniere?”.

Alcuni rispondono: “Perché gli piace”. Ribatto: “Perché dovrebbe piacergli?”. Vorrei provocare chiedendo perché mai dovrebbe piacere a noi che neanche l’abbiamo visto. Risponde una ragazza: “Si rivede nella pianta”. Ancora io: “Che cosa rivede di sé nella pianta?”. La stessa ragazza risponde con queste parole: “Ora ha più senso! Lo scrittore si commuove davanti alla pianta perché si rivede in lei. Forse ha avuto anche lui una vita difficile”.

Riprendo: “Forse sì (ha combattuto nella Prima guerra mondiale ed ha assistito alla Seconda, nda) ma mi pare che il finale contenga qualcosa di non riconducibile solo a questo”. Più d’uno dice: “Vuole vivere”. Riprendo: “L’autore sarà stato giovane o vecchio?”. Uno pieno di stupore dice: “Ma allora era vecchio?!” (nel tuo orizzonte di vita ti accorgi adesso con stupore che esiste la vecchiaia).

Riprendo: “Io non so che età avesse quando ha scritto, ma me lo immagino vecchio perché dice: si sentiva che era in agguato. È in “agguato”, come un predatore, ad attendere che rinasca la vita in primavera. Ma come fa ad accorgersi di quello che sembra desiderare l’olmo?”.

Non c’è più tempo, la lezione è agli sgoccioli e non posso rimandare la conclusione alla lezione successiva perché sarebbe impossibile ricreare la tensione presente; allora concludo imboccando un po’ i ragazzi: “L’autore è come quella pianta che, con l’inverno che tarda a scomparire, è lì tutta tesa ad aspettare di riavere su di sé qualche gemma, qualche fogliolina che rinasce. Anche lui vuole rinascere, vuole vivere ancora pienamente come avviene alla natura quando inizia la primavera”. Insisto: “Dobbiamo segnare la scoperta di oggi”.

Questa descrizione è bella perché è la descrizione di una pianta (che certamente c’è davvero e che l’autore vede e ama), ma è anche la descrizione del riflesso che quella realtà ha su Tecchi mentre lui la guarda e mentre tifa perché sbocci la prima fogliolina su quella pelle rugosa di cui ci parlava.

Uscito contento da queste due lezioni mi dico: ecco perché vale la pena osservare la natura in prima media! Essa risveglia in noi una promessa di bene che è nelle cose, seppure a volte malinconica. Capisco infatti che in queste lezioni sono emersi due punti decisivi che in realtà conosco da tempo ma che riscopro adesso come nuovi.

1) Le cose ci sono. È banale; le cose ci sono, la natura c’è, è bella e misteriosa per i miei studenti e anche per me. Ma i ragazzi non sono avvezzi ad osservarla e anche io spesso non mi ci soffermo, perché distratto o perché convinto di conoscerla già. Io, adulto, sono però provocato ad osservarla con curiosità perché ho bisogno di trovare un particolare che la riveli ai miei alunni. Ma perché la natura è così importante? In quanto fattore dato, non deciso dal soggetto ma impostogli come contesto e perimetro in cui vivere la propria esistenza, essa educa l’io.

2) Le cose mi provocano. Nel momento in cui mi accorgo dell’esserci delle cose, nel momento in cui queste si mostrano, mi accorgo anche di essere chiamato a reagire.

L’autore Tecchi viene provocato dall’albero a sentire di più la natura, la propria natura desiderosa di vivere intensamente. Questo, principalmente questo, io credo, ha provocato nei ragazzi un inizio di immedesimazione nelle parole dello scrittore, facendo percepire loro un bello, una corrispondenza confusa ma reale e vera tra il di ragazzini, il mio di docente e l’autore, che davanti a quell’olmo rinsecchito e contorto si è commosso fino a rappresentarlo in modo così acuto.

Nella sua semplicità questa esperienza didattica è miracolosamente diventata un punto vivo che parla alla vita reale: le cose ci sono e sono belle, ci sono anch’io che mi posso accorgere di loro. La forma specifica dell’oggetto (il testo antologico in questo caso), l’analisi nel dettaglio, la particolare forma linguistica piena di immagini, ci ha suggerito che esso nasconde un segreto che è l’animo e la passione vitale del suo autore. L’accorgersi che il brano contiene un punto vivo ha acceso gli alunni di interesse e questo ha trascinato anche me. Mi sono dovuto chiedere cosa davvero li facesse vibrare. E non poteva certo essere la sola precisione della tecnica linguistica o la ricchezza della descrizione, come alcuni ragazzi hanno affermato inizialmente.

Il cuore della lezione si è centrato sulla comune scoperta del reale. Questo rende tutto nuovo. Rende nuovo il momento della lezione. Il reale provoca l’io e l’io provocato guarda al reale con occhio nuovo. Ne scaturisce un rapporto originale fatto di stupore e di scoperta che apre le menti e consente una maturazione incalcolabile della persona. I manuali di antologia differenziano la descrizione oggettiva da quella soggettiva e insegnano la tecnica per realizzarle. Ma non c’è descrizione senza un coinvolgimento affettivo dell’io, senza un rapporto con l’oggetto. Non c’è lezione senza la testimonianza del docente coinvolto, lui pure affettivamente, col particolare da lui proposto. Senza affezione la natura o il testo letterario restano inesorabilmente muti: insegnante e alunni si trovano davanti a una realtà silenziosa, quindi del tutto priva di attrattiva.

Con questo esempio spero di aver contribuito a sottolineare come il centro della didattica non sia il metodo del docente ma è lui, lui in quanto essere umano provocato dalle circostanze del suo mestiere. Lui come testimone che quel particolare della realtà ha un senso assoluto. La metodologia didattica è una conseguenza, importante certo, ma dipendente dalla brace che riverbera nella vita del docente. “Lo stile è il modo singolare con il quale un insegnante entra, lui stesso, in rapporto col sapere” (L’ora di lezione, pp. 104-105).

Il docente ha come compito quello di accendere una fiamma nei suoi studenti e l’efficacia della sua azione può essere verificata guardando innanzitutto a se stesso. Se al termine della lezione anche lui esce dall’aula pieno di stupore per una realtà che lo ha scavalcato e sorpreso, allora ha guadagnato qualcosa (e questo deve poter accadere in ogni istante, anche durante le interrogazioni) e la lezione è trasformata in un momento di vita viva. Se esce stanco, sofferente ed annoiato, allora ha la certezza di aver invece sprecato il proprio tempo. “Giovanni Gentile ha potuto affermare che solo quando usciva dall’aula con la sensazione di aver appreso qualcosa che a lui stesso sfuggiva prima di cominciare, poteva considerare che quella era stata davvero un’ora di lezione” (L’ora di lezione, p. 112).

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