Tra meno di un mese circa la scuola affronterà l’inizio di un nuovo anno scolastico e il dibattito pubblico delle ultime settimane si è concentrato su tutto ciò che è necessario per riprendere la didattica in presenza. Che questo sia un bisogno ineludibile è fuor di dubbio.
Ma non basta individuare il bisogno se questo non si accompagna a una non scontata e rinnovata consapevolezza del perché e dello scopo di una relazione educativa. Che il valore per me della “presenza” non sia automaticamente evidente, tanto che dello stesso fenomeno si hanno conoscenze opposte, è ciò che non dovremmo perdere del momento storico che stiamo attraversando.
Non tutto per noi è “presenza”. E ci sono insegnanti che sono diventati “presenza” per i loro allievi e le loro allieve proprio in Dad e hanno scoperto in modo inaspettato e a volte drammatico quanto complesso sia l’iceberg-persona di cui spesso vediamo solo la punta.
Come direbbe Chesterton, noi non vediamo l’enigma che noi siamo, per cui non intercettiamo neanche ciò che vi risponde, il per me che è o non è questo e quello. Ciò che è presenza.
Lasciamo che il nostro sguardo e la nostra attenzione si concentrino in primis su aspetti “organizzativi” e rischiamo di ridurre a tecnica e organizzazione anche le questioni essenziali.
Fortunatamente può accadere che dei fatti che rimettano a fuoco l’enigma che siamo.
Un fatto eccezionale sono state le olimpiadi di Tokyo che hanno coinvolto atleti ed atlete di ogni parte del mondo e di generazioni diverse, nell’era del Covid. Eccezionali per per il “come” gli atleti e le atlete hanno vinto o perso (o si siano ritirati), per le fragilità, la fatica, la vertigine, la gratitudine, l’imprevedibilità dell’esito e – attraverso questo e altro – ciò che hanno scoperto di sé. Per come è saltato fuori il loro (e nostro) enigma.
Un tratto veramente sorprendente di questo enigma è che siamo bisogno di compagnia, di condivisione autentica del nostro cammino umano. La vicenda su cui vorrei soffermarmi è la medaglia d’oro per il salto in alto di Gianmarco Tamberi ex aequo con l’avversario qatariota Mutaz Barshim. Non la racconto nel dettaglio. Si trova su youtube e vale la pena che chiunque se la fosse persa la vada a vedere. Voglio non perdermi l’enigma di questo fatto: cosa permette lo slancio con cui Barshim, dopo aver ascoltato insieme al nostro Tamberi il giudice di gara ricordare loro il diritto allo spareggio, si volta verso Tamberi e gli dice “Let’s make the history, man!”, proponendogli di condividere la medaglia d’oro? E – di rimando – lo slancio dell’abbraccio di Tamberi che rimarrà nella storia? Cosa fa sì che il mondo intero si volti verso questa doppia medaglia d’oro che documenta una eccezionalità umana desiderabilissima? Com’è possibile che l’esperienza di quell’abbraccio sia più corrispondente che essere la medaglia d’oro di Tokyo 2020?
Che la scuola possa essere un luogo dove si dia spazio alle domande, a tutto il bisogno che siamo, si dia spazio all’enigma. Così che si possa insieme intercettare ciò che è presenza, risposta, in questa prospettiva. Un luogo dove si fa la storia, io e te. Dove possiamo accorgerci e dare valore all’accadere dell’altro, del collega, di un compagno (e di un maestro) nel cammino del mio tentativo di trovare ciò che mi soddisfa oltre ogni mio schema o immagine.
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