Nel 1973 un apprezzato pedagogista, Luciano Corradini – uno degli ispiratori dei decreti delegati che stavano per entrare i vigore – pubblicò un libro dal profetico titolo La difficile convivenza, nel quale avvertiva che la collaborazione tra scuola e famiglie, necessaria se non indispensabile, sarebbe stata un’operazione assai complessa da gestire. Eppure chi ha i capelli bianchi come chi scrive non può scordare l’entusiasmo ricco di speranze che accompagnò, mezzo secolo fa, la costituzione dei consigli scolastici prevista dai decreti delegati (in attuazione di una legge dell’anno precedente, n. 477 del 30 luglio 1973) che, tra molte altre nuove disposizioni, prevedevano la partecipazione delle famiglie (e degli studenti degli istituti secondari) alla vita scolastica.
Il titolo del saggio di Corradini sembrava male augurante nel momento in cui nascevano quei consigli di circolo e d’istituto che avrebbero dovuto dare – nelle intenzioni – una scossa modernizzatrice alla scuola italiana e trasformarne il tradizionale governo central-ministeriale in una esperienza di autentica democrazia scolastica, espressione delle esigenze delle famiglie e capace di aprirsi alla realtà sociale, sconfiggendo il suo autereferenzialismo. Ma le successive vicende ne avrebbero dimostrato la lungimiranza. Con il trascorrere degli anni i consigli scolastici andarono via via perdendo vigore e capacità di iniziativa, la partecipazione scese a livelli minimi, fu sempre più complicato trovare candidati che accettassero di rappresentare i genitori. Ed è questa la situazione nella quale tuttora vivacchiano i consigli di istituto e di circolo, protagonisti involontari di una grande delusione perché, se c’è una realtà nella quale bisogna unire le forze, imprimere energia e garantire un servizio all’altezza delle aspettative, questa è proprio la scuola.
Il quadro fin qui sommariamente descritto ed efficacemente documentato in articoli già apparsi sul Sussidiario sarebbe incompleto se non considerassimo un altro fenomeno che, quasi specularmente, si andò lentamente ma irreversibilmente manifestando mentre la partecipazione istituzionale perdeva forza e prestigio. Mi riferisco al cambiamento non solo ormai pluri-generazionale, ma direi addirittura anche antropologico dei genitori nei confronti dell’istituzione scolastica. Ai genitori rispettosi delle prerogative e delle competenze degli insegnanti delle prime annate, animati da grande fiducia e stima verso la scuola, si sono gradualmente – e negli ultimi anni vertiginosamente – sostituite altre tipologie di papà e mamme. Non è difficile individuarne alcune a partire dal genitore assente nella vita del figlio (“ciascuno deve farsi la sua vita, come ho fatto io”) e presente a scuola occasionalmente, spesso ignorante e cafoncello. Quello invadente e presuntuoso, convinto di poter dettare agli insegnanti le regole dell’insegnamento e della disciplina scolastica. Ci sono poi gli avvocati d’ufficio pronti a giustificare tutte le malefatte del marmocchio di famiglia e quanti (non pochi) sono (erroneamente) convinti che la “scuola non serve a niente” e che le uniche fonti educative meritevoli di essere rispettate sono la famiglia, l’autoformazione attraverso gli strumenti digitali e, se va bene, la conoscenza delle lingue in full immersion. L’elenco potrebbe continuare.
Le pagine di cronaca dei giornali si sono inoltre – e purtroppo – riempite di notizie raggelanti: docenti aggrediti e talora picchiati, insegnanti umiliati nella loro professionalità, capi istituto contestati per i provvedimenti disciplinari adottati nei casi di gravi danni provocati all’arredo scolastico, minacce e denunce di ogni tipo che talvolta necessitano di interventi della forza pubblica e della magistratura. Altro che “difficile convivenza”, ormai siano in qualche caso (per fortuna in una minoranza di scuole, tuttavia non irrilevante) al limite della reciproca incomprensione.
Da qualche parte si comincia a pensare (vedi il convegno di Firenze tra pochi giorni) alla revisione e riscrittura delle norme che regolano l’organizzazione dei consigli scolastici, ma è difficile pensare sul piano politico di essere alla vigilia di interventi significativi. Ci sono scadenze più urgenti che premono, come quelle dettate dai vincoli del PNRR (riforma della formazione professionale, riduzione degli squilibri formativi, potenziamento degli asili nido, messa in sicurezza degli istituti, formazione docenti, ecc.) e alcune scelte ritenute prioritarie dal Governo, come per esempio il liceo del made in Italy, il cui avvio sperimentale sembra per ora non sia stato esaltante.
Le questioni da considerare per ripensare la presenza a scuola sono almeno due. La prima riguarda l’assetto e i compiti attribuiti ad eventuali nuovi organismi di governo riequilibrando le competenze tra collegio dei docenti e il consiglio di istituto/di circolo. C’è da sperare che chi metterà mano a tale aspetto tenga conto che la scuola ha la finalità di far crescere le persone e non di confezionare un prodotto: insomma le soluzioni ispirate a gestioni aziendalistiche e alle regole del marketing non appaiono le più adatte a questo scopo.
Sarebbe invece auspicabile trovare soluzioni che consentano di passare dalla partecipazione alla condivisione e cioè, come ha invitato a fare anche papa Francesco, dare vita all’alleanza scuola-famiglia. L’idea di partecipazione che ispirava le norme degli anni 70 non sembra più sufficiente a sostenere le aspettative di una realtà genitoriale molto cambiata, più esigente e talvolta più fragile. Il perseguimento dell’obiettivo della condivisione necessita tuttavia non solo di interventi normativi, quanto della messa in campo di buone pratiche che aiutino i genitori a “capire” la scuola e gli insegnanti a “capire” una nuova generazione di padri e madri con tutte le varianti che oggi segnano le vite della molteplicità delle famiglie.
Di grande utilità – a giudizio di chi si è già avventurato su questa strada – è creare spazi di comunicazione periodica per assicurare chiarezza informativa sui risultati attesi e le strategie per raggiungerli, sulle prove e i criteri di valutazione, sulle esercitazioni casalinghe, ecc. e sulle regole che disciplinano la vita scolastica, con particolare attenzione a segnalare i comportamenti educativi e quelli altamente diseducativi (come la difesa ad oltranza dei figli).
La chiarezza informativa, a sua volta, andrebbe accompagnata da periodici report (per esempio mensili) per monitorare lo stato di avanzamento delle conoscenze sia a livello collettivo sia in relazione a ciascun allievo. I genitori, a loro volta, dovrebbero poter avere facile accesso agli insegnanti per informarli, per esempio, sulla vita casalinga dei figli, sulle difficoltà incontrate nello studio, sugli sforzi per raggiungere buoni risultati e per capire come migliorare la qualità dello studio. Si tratta di esperienze già collaudate nei livelli inferiori del sistema scolastico e che potrebbero venire esportate, con i dovuti aggiustamenti, anche negli istituti secondari. Naturalmente questi sono pochi – e forse banali – esempi tra le tante possibilità che si creano quando di pensa alla scuola come una comunità al servizio dell’educazione.
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