La scuola in presenza non comporta solamente una didattica più appropriata e più proficua per gli apprendimenti, ma molto altro. Certamente essa rappresenta il contesto più efficace per la socializzazione, che sappiamo attuarsi nello spazio della prossimalità. La socializzazione (che riguarda i comportamenti, i valori, gli orientamenti e che è diversa dal semplice “fare amicizia”) è un ingrediente essenziale per la crescita degli alunni, ma è anche indispensabile per gli apprendimenti, perché si impara meglio con gli altri, scambiandosi conoscenze e dubbi, sostenendosi reciprocamente per gli eventuali errori.



Tuttavia c’è un aspetto, che spesso viene trascurato. La scuola è anche il luogo delle cose, seppur disadorne, essenziali e talvolta malconce, e delle suppellettili che accompagnano la vita degli alunni e costeggiano le loro biografie. Non importa se le aule non sono moderne e confortevoli (certamente è indispensabile che siano sicure, se non belle), ma ciò che conta è che il “clima” delle scuole alimenti il tepore delle anime, così da favorire l’accendersi della passione per la conoscenza. Quel “clima”, che si qualifica come organizzativo, si nutre anche delle cose presenti nelle aule, che costruiscono la familiarità degli alunni con gli ambienti scolastici.



Già, le cose… Ma che importanza possono avere esse per gli alunni? Io, che sono andato a scuola intorno alla metà dell’altro secolo, ricordo ancora il banco di legno a due posti, nel quale ho trascorso gli anni del liceo con lo stesso compagno di classe. Ricordo, seppur con qualche trepidazione, la lavagna, sulla quale avvenivano le interrogazioni. Ebbene, penso che anche per i nostri ragazzi ci sia bisogno della realtà materiale delle cose, diverse da quelle della loro cameretta o della cucina, dove per mesi si è svolta la Dad.

Ma le cose, osserva il filosofo coreano Byung-Chul Han, di formazione tedesca, hanno smesso di vivere nel nostro mondo reale. Anziché quello delle cose, noi oggi viviamo il mondo digitale di Google e dei cloud, che prelevano i dati della nostra vita e ce li ammanniscono sotto veste di informazioni. Queste ultime, poi, ci investono quotidianamente con dei flussi potenti e ininterrotti, al punto che le nostre vite ne vengono influenzate fortemente.



Ormai a causa di questa infomania, le nostre energie libidiche hanno abbandonato il mondo delle cose per riversarsi sul mondo delle non-cose. Infatti le cose, filtrate dal cellulare e dai processi d’informatizzazione, non sono più tali, perché sono diventate informatori che ci sorvegliano e ci influenzano (infomi). Sono diventate non-cose, elargitrici di informazioni atte a guidare la nostra vita e – come suggerisce Shoshana Zuboff – a controllarla, estraendo ricchezza dai dati che noi volenterosamente cediamo (Internet of things) alle grandi aziende che gestiscono i social. Rispetto alle informazioni, non ne abbiamo più il possesso, ma, eventualmente, l’accesso. Così entriamo nella rete e dolcemente ne subiamo gli algoritmi. E l’eros, che nutre la passione per il sapere, si stempera in una blanda affettività, che è quella degli smartphone.

Mentre le cose sono distanti da noi e per questo ce ne dobbiamo appropriare, il telefonino annulla la distanza di queste ultime e, tra le nostre mani, annacqua e blandisce lo stupore del reale, gestito con la digitazione. Mentre il possesso connota il modo profondo con cui gli uomini entrano in rapporto con le cose, che nella loro materialità sono oppositive e per questo stimolano il senso umano di appropriazione, le non-cose non si oppongono, ma suasivamente dilagano nella nostra vita. Tuttavia, senza la corporeità oppositiva delle prime gli uomini perdono il comune senso della realtà; il mondo delle seconde sopraffà il reale, i fatti e perfino la biologia, conducendoci in un’altra realtà, densa di informazioni, ma sfuggente e nebulosa.

Lo smartphone è paradigmatico, poiché annulla la distanza dal mondo, mostrandone ingannevolmente la prossimità. Tra le nostre mani.

Questi – dal punto di vista di Byung-Chul Han – sono i mutamenti del mondo della vita (Umbrüche der Lebenswelt, come suggerisce il titolo), che riguardano noi tutti, ma particolarmente gli adolescenti, sempre più connessi alla rete ma sempre più soli, secondo lo psichiatra Manfred Spitzer. Una folla solitaria, per usare una celebre immagine sociologica. Certamente il ripristino della vita autentica deve attraversare il territorio del frastuono delle informazioni per approdare al silenzio. È nel contatto con le cose, che si attua il recupero di una nuova relazionalità e identità. Tutto ciò spiega l’esigenza di un ritorno alla scuola in presenza. Spiega altresì le ragioni di validità di un’esperienza come quella dell’alternanza scuola-lavoro, nel corso della quale i giovani apprendono l’uso lavorativo delle cose.

Tuttavia, la legittima critica al mondo digitale non può prescindere da una serie di distinguo, dacché l’esigenza di un recupero dello zoccolo duro del reale non può porre sullo stesso piano esperienze mediatizzate diverse. Un conto sono quelle che Bauman definiva come comunità-gruccia, create nella rete, ad esempio, attorno alle celebrities; ben altro è la partecipazione, seppur filtrata dalla televisione, a un evento come l’attuale guerra in Ucraina. Non tutte le esperienze mediate hanno pari valore e i sentimenti che proviamo per quella vicenda, che sono di paura, di commozione e di solidarietà, assumono la veste di una “quasi interazione”, carica di dignità e autenticità.

Qualsiasi percorso finalizzato alla crescita (e al superamento delle difficoltà adolescenziali che, secondo lo psicologo americano Philip Zimbardo, sono particolarmente evidenti nei maschi) non può prescindere da questa distinzione, perché, nella postmodernità, accade che la più parte delle nostre esperienze sia di questo tipo, mentre si riduce il “faccia a faccia”, che ha caratterizzato l’interazione umana nei secoli. Molte conversazioni, al cellulare o in chat, avvengono simultaneamente, sebbene gli interlocutori siano spazialmente lontani. John B. Thompson osserva che l’avvento delle telecomunicazioni ormai ha prodotto lo sganciamento di spazio e tempo. La simultaneità, infatti, è despazializzata.

Questo è quello che accade anche con la Dad, che appartiene a pieno titolo all’esperienza postmoderna.

Certamente la didattica a distanza deve essere regolata, sicuramente ridimensionata, ma non rimossa. Adesso, che siamo tutti in presenza e non vi sono rischi di fraintendimenti, potremmo anche parlarne. Sempre che il ministero intenda promuovere un tale dibattito.

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