«È difficile definire la parola ‘senso’, però ciascuno di voi almeno una volta si sarà chiesto: ma che senso ha questo video, questo film, questo racconto…? Alzi la mano chi ha fatto questa esperienza». A questa domanda, posta durante una lezione introduttiva agli scopi e alle condizioni della comunicazione verbale a un pubblico composto da tre classi prime liceo, classico e scientifico, solo un terzo degli studenti ha risposto affermativamente. Un altro terzo ha dichiarato di non essersi mai posto una simile questione e un ulteriore terzo è rimasto un po’ interdetto, non avendo compreso bene cosa esattamente gli si stesse chiedendo.
L’inesperienza del problema del senso in molti ragazzi di quattordici-quindici anni, alle soglie della giovinezza, con alle spalle una corposa storia scolastica, mi ha richiamato alla mente la domanda sul compito della scuola in una società in cui l’informazione è interamente e immediatamente a disposizione di chiunque attraverso un qualsivoglia smartphone, questione posta durante un incontro con alcune centinaia di docenti a inizio anno scolastico dai sociologi Giaccardi e Magatti presso la Fondazione Sacro Cuore di Milano e dettagliata nel loro volume Supersocietà. Ha ancora senso scommettere sulla libertà? (Il Mulino, 2022), in particolare nel capitolo 7, Educazione, individuazione, coindividuazione.
«In una società dove gli strumenti tecnologici sono pensati come concorrenti o surrogati del pensiero umano» non è scontato, scrivono i due sociologi, investire sul fattore umano e l’educazione è un «processo da ripensare». Il singolo uomo non può certo competere con dispositivi dotati di intelligenza artificiale nel possesso delle informazioni e nella velocità di processazione dei dati. Di conseguenza, la scuola stessa perde la connotazione di agenzia prioritaria di trasmissione delle conoscenze: i manuali vengono spesso sentiti da docenti e studenti come superati, sia per la difficoltà di fruizione e consultazione rispetto al web, sia perché ridotti nella loro potenza informativa; prendere appunti durante le lezioni è da molti percepito come una perdita di tempo, potendo ricorrere a mezzi ben più immediati di registrazione e reperimento delle nozioni; l’apprendimento mnemonico è visto per lo più come prassi inutile e noiosa.
Il percorso di digitalizzazione e globalizzazione dell’informazione è stato così rapido che il mondo adulto fatica a trovare forme nuove ed efficaci per salvaguardare l’introduzione alla conoscenza delle discipline, che rimane pur sempre essenziale per la formazione delle nuove generazioni, le quali, come tutte quelle che le hanno precedute, necessitano di conoscere, comprendere e giudicare il passato per vivere consapevolmente il presente e progettare fiduciosamente il futuro.
«Immersi nel flusso continuo e indistinto costituito da una miriade di frammenti», bambini e ragazzi si trovano a subire soprattutto gli aspetti negativi di quella che si configura come una ricchezza inedita nella storia dell’umanità: «mai – infatti – gli esseri umani hanno avuto la possibilità di poter accedere immediatamente e a costo zero a tante informazioni e conoscenze». Ritiro dall’impegno, se non addirittura dalla frequenza scolastica; difficoltà, a volte incapacità di concentrazione per tempi prolungati nell’ascolto, nella lettura, nello studio; rinuncia a operare azioni di sintesi e a porsi la domanda sul significato di quel che si legge, si ascolta, si incontra, sono fenomeni in crescita tra i giovani e i giovanissimi, per combattere i quali docenti, genitori ed educatori hanno le armi spuntate.
«Quali sono – allora – le condizioni per consegnare alle nuove generazioni la responsabilità di un nuovo pensiero e di una nuova forma di azione all’altezza della complessità in cui viviamo?», si chiedono audaci Giaccardi e Magatti. Domanda da tenere aperta in ciascun adulto che si occupi di educazione, dal docente, al genitore… al nuovo ministro dell’istruzione. Una domanda che non si può eludere e che può trovare risposte solo osservando bambini e giovani in azione: quando li si sorprende attenti e interessati? A quali condizioni una lezione riesce ad attivare la loro domanda di senso? Quali modalità, strategie didattiche li invogliano a fare i loro tentativi di studio, di ricerca? Cosa li porta ad argomentare, ad esercitare il loro spirito critico e la loro creatività?
I due sociologi offrono alcuni spunti per ripensare il rapporto educativo, a partire dalla valorizzazione del nesso tra ‘conoscenza’ ed ‘esperienza’, una strada possibile di rilancio e di attivazione del pensiero e dell’azione: «fin dalla prima infanzia la mente si sviluppa mediante l’interazione con la realtà (…) il nostro sviluppo intellettivo coinvolge il corpo, la mente, le mani, il cervello. Il concreto e l’astratto, in perenne dialogo tra loro».
La realtà è infatti l’origine e il fine dell’educazione, nell’incontro con essa si desta la curiosità della conoscenza e la domanda sul suo significato, e al contempo essa è luogo della verifica delle proprie scoperte, luogo di realizzazione dei propri tentativi di espressione e creazione. Illuminanti in tal senso le pagine de Il rischio educativo dedicate da Luigi Giussani all’interazione tra uomo e realtà come strada per l’educazione e per il compimento di sé, all’esperienza come chiave del processo educativo, scritte ben prima dell’avvento della digitalizzazione e della globalizzazione che ha portato a un impoverimento pericoloso sia della concretezza sia dell’astrazione, dimensioni altrettanto essenziali nella conoscenza: «La persona è innanzitutto consapevolezza. Perciò quello che caratterizza l’esperienza non è tanto il fare, lo stabilire rapporti con la realtà come fatto meccanico: è l’errore implicito nella solita frase ‘fare delle esperienze’ ove ‘esperienza’ diventa sinonimo di ‘provare’. Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose. E il senso di una cosa si scopre nella sua connessione con il resto, perciò esperienza significa scoprire a che una determinata cosa serva per il mondo» (capitolo 3, La struttura dell’esperienza).
Oltre ad alcuni suggerimenti pratici su come ridisegnare i percorsi formativi, dei quali si potrebbe e varrebbe la pena discutere in quanto possibili tentativi, quindi per natura opinabili e perfettibili, i due sociologi propongono in estrema sintesi di «mettere a valore la capacità trasduttiva e neghentropica dell’intelligenza vivente, che è multidimensionale, plurale, relazionale. Ciò comporta una scelta di campo: mettere al centro la qualità delle persone e delle relazioni». Non può che essere questo il desiderio che chi fa scuola consegna a chi avrà anche istituzionalmente il compito di disegnare la scuola del presente e del futuro, liberandola da inutili burocrazie e deprimenti rigidità, e investendo sulle persone, docenti e studenti, sulle loro intelligenze attive, sulla loro creatività, sulla possibilità di relazionarsi tra loro e con i protagonisti dell’università, del lavoro e della ricerca, perché l’educazione è affare di tutti quelli che abbiano a cuore il destino dell’umanità.
Una docente, la professoressa Daniela Muzio, al primo collegio docenti dei licei della Fondazione Grossman, ha proposto ai colleghi un’immagine paradigmatica di come andrebbe ridisegnata la scuola, affinché risponda pienamente al suo compito di rimettere al centro «la qualità delle persone e delle relazioni». Si tratta del dipinto di Nikolay Bogdanov-Belsky, Aritmetica a mente nella scuola di S. Rachinsky, 1895, dalla docente così commentato: «Nella scuola di Rachinsky – un botanico che abbandonò l’insegnamento universitario per fondare delle scuole rurali – si faceva lezione in questo modo: l’insegnante ogni giorno proponeva un quesito ed offriva gli strumenti essenziali per risolverlo; affidava poi alla ragione dei ragazzi la ricerca della soluzione; quando uno di loro credeva di averla individuata, gliela confidava in un orecchio e, se corretta, si sedeva alla sua destra in attesa che ognuno dei compagni facesse il proprio percorso. Il quadro rappresenta significativamente il clima pieno di interesse in cui si sviluppa la lezione impostata così: sono rappresentati undici ragazzi e l’insegnante. Nei volti dei ragazzi il procedimento della ragione è individuato nei suoi vari step (l’osservazione, l’intuizione, la deduzione, l’esposizione…), anche con bonaria ironia (il ragazzino che prova ad ascoltare la soluzione del compagno!). Il maestro non ha una posizione dominante: è fedele alla sua funzione di in-segnante – introdurre al segno, offendo gli strumenti per decodificarlo – e garantisce con la sua stessa presenza che un significato c’è. Il protagonista non è lui, bensì la ragione dei ragazzi nel suo incontro con la realtà attraverso il segno. L’icona della ‘Madre di Dio che salva il mondo’ di Vasnetsov suggerisce discretamente da quale visione della realtà scaturisce una tale fiducia nella ragione. Forse è di queste categorie che occorre riappropriarsi: la stima per la ragione, il vero ruolo dell’insegnante – mediatore e garante – la positività della realtà e del segno che la rivela».
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