Che cos’è questo senso di fastidio che provo, questo bruciante desiderio di prenderli a calci nel didietro questi 15 gaglioffi e gaglioffe che girano per i corridoi della mostra bella e sorprendente che sto visitando? Tre insegnanti faticano a tenerseli vicini, a mantenerli in silenzio, nonostante si sbraccino per radunarli intorno ai pannelli che illustrano miracoli che sbalordirebbero anche un sasso. Loro invece sono distratti, hanno 11 o 12 anni, forse fanno la quarta o la quinta elementare. E hanno solo un anno o due in meno degli alunni con cui sono stato ogni giorno per quasi quarant’anni di scuola.



Questo fastidio è la misura della mia vecchiaia? Perché si ha un bel dire che invecchiando si diventa saggi. In realtà, forse, ci si inacidisce, si diventa intolleranti, ci si inaridisce un po’. E allora questi ragazzini irrompono dentro il tuo desiderio di pace e tranquillità, mischiano le carte di una giornata che non sarebbe stata proprio memorabile – anche se la mostra un po’ lo è –, ma sarebbe filata via liscia e senza fastidio.



Più li guardo, più mi innervosisco. Mi sembrano persino brutti, sgraziati, oltre che maleducati. Inopportuni. Poi come in un lampo, mentre ascolto il mio vicino che si lamenta ad alta voce delle stesse cose per cui io provo fastidio, mi vengono in mente alcune facce: di disperati con il cuore sempre in tumulto, con i capelli spettinati, con le tute sporche del giorno prima, con la voce stridula o gli occhi addormentati. Mi vengono in mente gli Andrea, i Jonathan, gli Yuri, le Alessia e Deborah-con-l-acca con cui ho vissuto la mia vita. E mi è venuto in mente Saint-Exupéry, il suo piccolo principe e la sua rosa.



Sono certamente invecchiato e la mia soglia di sopportazione del rumore, del disordine, della strafottenza sventolata come una bandiera, dell’incapacità di darsi un limite, dello strabordare oltre la misura o, al contrario, del rimanere sempre al di qua della misura, quella soglia lì, insomma, si è certamente abbassata. Ma le mie rose, i miei gaglioffi e le mie gaglioffe, che erano probabilmente anche peggio di questi che gironzolano per le sale e non stanno attenti nemmeno al video, erano i miei: brutti, sporchi e anche cattivi, ma ci avevo speso tempo, come il piccolo principe con la sua rosa. Avevo riso con loro, pianto anche con loro. Ci eravamo tirati grandi insieme: non soltanto io per loro, ma anche loro per me eravamo stati occhi, sguardi gettati nel mondo; eravamo cresciuti e cambiati; avevamo dato al tempo un senso, una direzione. E anche quando ero giovane, comunque, anche con loro mi era venuto lo stesso bruciante desiderio di prenderli a calci nel culo. E anzi confesso che qualche volta l’ho persino dato, un calcetto. Ma non era arrivato l’avvocato o l’ispettore: sapevamo che anche quella roba lì era possibile e anzi quasi necessaria per dire che eravamo un legame buono. Qualcuno dei miei alunni, ormai quasi cinquantenni, me lo ha ricordato proprio in questi giorni.

Così capisco i tre insegnanti che si tirano dietro i quindici gaglioffi e gaglioffe: a costo di arrivare a sera senza forze e senza voce, la cosa importante è che quei ragazzi stiano lì. Davanti a quei pannelli che raccontano miracoli e bellezze. E stiano lì insieme a loro. Capisco così anche l’altro fastidio che provo in questi stessi giorni rispetto alle chiacchiere da talk-show che, come ogni anno, riempiono i dibattiti sulla scuola: dall’uso del cellulare – che bisognerebbe proibire anche alle superiori, no? in linea con le democrazie scolastiche del nordeuropa che i maître à penser della pedagodidatticologia italiana vorrebbero copiare in tutto, ma chissà perché in questo no – al voto nel comportamento; dai soliti disastri delle nomine, alla vergognosa gestione dei tirocini per i vincitori di concorso.

Anche qui mi chiedo se non è l’età a procurarmi tutta questa noia su tali questioni. E anche qui devo rispondere che no, non è vero che non ho più l’età per appassionarmi al dibattito in corso. È che, come quando ero giovane, mi sembra che il dibattito debba essere spostato altrove. Penso alle parole della poetessa Mariangela Gualtieri: “Vola. Adesso. Basta fingere quel rasoterra./ Vola. Vola. Vola./ Sei più immenso dell’angusto/ abitacolo del corpo. Non fingere più./ Sorgi. Ora. Rimandi sempre. / Prendi tutto lo spazio. Brucia tutto/ il tempo. […] Hai cieli, hai stelle, hai prodigi di gioia// e abiti nel triste sgabuzzino della vita”.

Parole da recitare ogni mattina davanti allo specchio da parte degli insegnanti, rivolgendo innanzitutto a sé stessi queste invocazioni. E poi rivolgendole ai loro alunni. Che ciascuno di loro possa poi guardarsi nello specchio dicendosi: “Ciao faccia bella,/ gioia più grande./ Il tuo destino è l’amore./ Sempre. Nient’altro./ Nient’altro. / Nient’altro”.

Possibile che ancora non lo si sia capito? Che bisogna ascoltarli i poeti? Certo è più difficile essere uomini così, piuttosto che obbedire alle nuove parole d’ordine che nella scuola sembrano volere cambiare tutto per non cambiare niente. E poi, chi li forma uomini così? Quali corsi e concorsi, quali valutazioni, quali griglie potranno mai misurare cieli, stelle e prodigi?

Torno a casa, sperando che, come sempre, da qualche parte, nonostante la Scuola, quei quindici gaglioffi di dodici anni possano continuare a fare la scuola: a essere piccoli fiori di cui un qualche piccolo principe si prende cura.

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