Compito di religione in una quarta. I ragazzi sono assorti, riflettono sulla traccia che ho dato; forse mi è venuta un po’ difficile, ma loro ci stanno e chiedono dove non capiscono. Si parla di amore e della sua possibilità: si può imparare ad amare veramente? Cosa dice la Chiesa a riguardo?  Che ne pensate?

C’è un silenzio incredibile per questa classe solitamente confusionaria e me li godo, più belli e simpatici del solito, affascinanti come solo gli adolescenti quando sono seri e impegnati possono essere. Lo so che ne leggerò di tutti i colori e non so quanto rimarrà delle mie lezioni nei loro scritti, ma si vedrà, non mi preoccupa più di tanto, non è lo scopo del lavoro.



Già, ma qual è lo scopo di un compito in classe di religione? E mi domando: ma perché non mi chiedono di lasciarli in pace? Che almeno io in questi giorni di fatica da verifiche li lasci respirare insomma. E proprio mentre rifletto su questo strano fenomeno, uno studente, un tipo sveglio, rompendo il silenzio mi fa: “Prof, finalmente ho capito perché ci fa fare anche lei i compiti in classe”. “Perché?”, chiedo sorpreso e incuriosito. “Perché ci vede così stressati in questi giorni che vuole aiutarci a pensare a cose belle”. Invio sorridendo un cenno di assenso al mio studente, sorvolo sul fatto che anche nelle altre discipline si fanno cose belle, solo che non sempre se ne rendono conto e incasso questa ennesima lezione. Riprendo ad osservarli dalla nuova prospettiva indicata dal mio studente e penso che ha proprio ragione: si vede dalle facce che stanno riprendendo fiato. Questo avviene non solo perché non sono preoccupati per il mio “voto”, ma perché una volta tanto stanno scrivendo di loro, di quello che gli sta a cuore e sono chiamati a paragonare la loro vita con quell’altra iniziata duemila e passa anni fa ma ancora pulsante, e che si interessa alla loro umanità per amore, una vita che si chiama cristianesimo e che parla loro attraverso la mia persona, un poveretto come altri ma portatore di un altro mondo in questo mondo.



Per quello che è la mia esperienza, l’ora di religione è questa roba qui. Come ci ha detto don Massimo Camisasca nel primo bellissimo incontro del percorso di formazione della nostra Bottega di religione cattolica (Diesse), “lo scopo dell’ora di religione è quello di offrire ciò che la religione cattolica è, e cioè una proposta di lettura dell’esistenza e di salvezza per l’uomo”.

Al di sotto di questo orizzonte, l’insegnante di religione (IdR) corre sempre il rischio del falso dualismo tra vita e cristianesimo incorrendo in due errori: rifugiarsi nell’alibi dell’indifferenza dei giovani per il cristianesimo e perdersi inseguendo l’attualità; perseguire una sistematicità accademica astratta, trasmettendo contenuti dogmatici corretti ma distanti dalla vita degli studenti. O anche, aggiungerei proprio in questo periodo in cui finalmente si pensa all’ormai prossimo concorso per gli IdR, aspettarsi dal riconoscimento giuridico – cosa importante, per carità – la consistenza della propria presenza a scuola.



Invece, è solo per una gratitudine amorosa a Cristo che si può insegnare questa nostra strana disciplina, una riconoscenza che si dilata come desiderio che i nostri ragazzi possano viverla con noi. Questo genera una tensione che ce li fa sfidare quotidianamente e ricominciare sempre daccapo, ogni giorno. Perché, come racconta don Giussani ricordando gli anni in cui insegnava religione (e si era negli anni 50-60, pensate un po’…), “…era come se ogni volta che entravo in classe andassi all’attacco con la baionetta, come se avessi dovuto sfondare un muro che dopo mezz’ora di scuola aveva un buco, ma la settimana seguente il buco era già riempito e bisognava tornare a rifare da capo”.

Quante volte, in questi anni, mi è capitato di rifare la stessa esperienza raccontata da don Giussani! Praticamente ogni mattina, ancora oggi. Nei primi tempi, la constatazione di questi scacchi quotidiani mi bloccava. Mi scandalizzavo per l’indifferenza o l’ostilità dei ragazzi, oppure attribuivo tutto alla mia modesta preparazione, al mio scarso appeal, alla mancanza di un solido status giuridico, al contesto culturale ostile, eccetera. A volte mi riconsolavo pensando che se anche un genio come don Giussani aveva delle difficoltà, figuriamoci un poveretto come me! E così via, di giustificazione in alibi.

Tutti questi arzigogoli mi lasciavano tristemente confuso. Ma è nella natura dell’amore stesso di essere fatto di continui inizi e meno male che ci sono i ragazzi a ricordarmelo proprio quando ne ho bisogno: che coincidenza miracolosa!

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