Tutti sappiamo che le scuole non riapriranno prima di settembre. Dobbiamo ringraziare quel quasi milione di insegnanti che da due mesi, con generosa creatività, stanno reinventandosi la scuola, e che dovranno fare i conti anche con le valutazioni finali e gli eventuali recuperi da svolgersi agli inizi del prossimo anno.
Tante sono le ragioni per cui abbiamo sperato che le scuole riaprissero prima. Ragioni tutte sacrosante – alleggerimento sulle famiglie, socializzazione, sostegno a chi è maggiormente in difficoltà –, ma forse non è tutto qui, c’è qualcosa d’altro di cui si sente il bisogno.
Con un’ingenuità disarmante lo ha scritto qualche tempo fa, rivolgendosi nientemeno che al Presidente della Repubblica, una bimba di Riccione, terza elementare, dopo settimane di didattica a distanza: “La prego, per favore, riapra le scuole. Io non ci capisco più niente, non imparo niente. Anche se le mie maestre sono super brave non riesco ad imparare… io senza scuola sono persa tra le nuvole”.
Ecco che cosa manca, o perlomeno cosa è diventato molto più incerto e precario: che si possa imparare! Che un contenuto ascoltato, letto, visto, memorizzato, diventi “imparato”, cioè preparato per me, messo dentro la mia esperienza, qualcosa che conosco, che mi diventa familiare, che mi serve nel rapporto con la realtà. Quella bimba di Riccione sta cercando questo!
Oggi più che mai è struggente la domanda sull’imparare. Questi mesi hanno aperto prospettive ma anche domande, creato illusioni ma anche delusioni. Da settembre come sarà l’insegnamento? I nostri bambini, i nostri ragazzi, come impareranno e da chi impareranno?
Sembrano scritte oggi queste parole di Péguy del 1904: “le crisi di vita sociali si aggravano, culminano in crisi dell’insegnamento”. Oggi stiamo attraversando una crisi di vita che inevitabilmente si riverbera nell’insegnamento, riproponendo la drammatica relazione insegnare-imparare. Chi insegna, cioè chi quotidianamente prova a lasciare dei segni nella mente e nel cuore di qualcun altro, chi ogni mattina desidera che questo qualcun altro impari, come quella bimba di Riccione vorrebbe, sa che si impara, si conosce, solo se si accetta di lasciarsi coinvolgere affettivamente. Lo ricorda Julián Carrón nel recente Il risveglio dell’umano: “Solo l’impatto – accettato – con la realtà può spalancare nuovamente la ragione. È sempre un contraccolpo, un essere colpiti, a far sì che i nostri occhi si aprano: la conoscenza implica nel suo sorgere e nel suo svilupparsi una originaria dimensione affettiva”.
Risorse capaci di mobilitare l’affettività. Di questo oggi più che mai la scuola ha bisogno. Contenuti ne abbiamo messi in campo tanti, le scuole, il ministero, la televisione, l’editoria, tutti stanno sfornando piattaforme, app, programmi, pieni di “cose” conoscibili. Ma c’è bisogno di persone che sostengano il mobilitarsi dell’affettività perché possa accadere la conoscenza. Che lo facciano in qualunque modo, anche attraverso uno schermo, ma che abbiano a cuore questo.
Da settembre la scuola sarà un misto di didattica a distanza e in presenza, di banchi distanziati e di aule allargate, di percorsi segnalati e di ingressi contingentati. Ci auguriamo che sia una scuola capace di mettere in campo e in rete tutte le risorse umane, ambientali (perché no?), economiche e imprenditoriali, ideali, perché si possa veramente imparare.
L’Italia non è tutta uguale dalle Alpi alla Sicilia, così come non sono uguali i ragazzi, le famiglie, gli insegnanti. Se l’urgenza è che la scuola insegni e i giovani imparino, queste differenze devono diventare risorsa e non ostacolo da rimuovere.
Veramente appare ridicolo ogni centralismo, ogni tentativo di continuare a pensare a una scuola uniforme, dimentica sia dell’autonomia (legge 59/1997) che della parità (legge 62/2000). Non affrontare, per esempio, seriamente il problema delle paritarie che rischiano la chiusura non è un segnale confortante. Come diceva Leopardi di fronte alla presunzione dell’uomo, “non so se il riso o la pietà prevale”.