Penso che sia arrivato davvero il momento di dire basta. Senza mezzi termini, con decisione. Se abbiamo ancora un briciolo di dignità, di senso della nostra professionalità, di stima verso la nostra missione di docenti. L’esame di Stato ha subìto l’ennesima riforma, il traguardo del percorso è stato nuovamente ridipinto. Passino le prove scritte, sulle quali non ho particolari obiezioni, ma il colloquio… Si può senza esitazione definire un’istigazione al Bignami, alla cultura delle formule, dei riassunti.
Il gioco delle tre buste e la soppressione della tesina hanno peggiorato la situazione. La tesina è sempre lì, latente, in sottofondo. Con la differenza che è stata tolta anche l’unica libertà che aveva lo studente, quella bene o male di scegliersi un percorso, e gli è stata imposta una scelta limitata dettata dalla commissione e dal caso. E se il sistema precedente poteva anche produrre un itinerario interessante, o addirittura originale (anche se rarissime volte), ora la logica dei collegamenti multidisciplinari improvvisati partorisce i voli pindarici, gli arrampicamenti improbabili, i goffi tentativi di portare lo spunto su quello che si è già preparato prima del colloquio. Non mi stupirei se qualcuno passasse dalle tette della popolana di Delacroix, che guida il popolo sulle barricate, alla tettonica a placche.
E’ un gioco insulso, a guardarlo oggettivamente, spassionatamente, da fuori. Un bambino, la voce della verità, che non si fa tanti problemi, griderebbe che il re è nudo, mentre noi, commissari e presidenti di commissione, e loro, studenti, dobbiamo far finta che la cosa sia seria, come in una commedia di Pirandello.
Ogni tanto il muro d’omertà si rompe. La ragazza che ho davanti e a cui chiedo di ricordare almeno un testo che ha in programma e che l’ha colpita, dopo averci pensato un po’ e non aver trovato niente, mi risponde, con un rammarico che m’intenerisce: “Io ho studiato sulle sintesi”. Il trionfo del Bignami.
Mi vengono in mente i versi di Giudizi Universali di Samuele Bersani: “Io non ti conosco e in fondo non c’è / in quello che dici qualcosa che pensi, / sei solo la copia di mille riassunti…”. Ma non è colpa tua, bimba mia, o almeno non solo. Tu sei un fiore a cui non è stata data la possibilità di fiorire. E io devo stare qui a sfogliarne cinquantuno in undici giorni e a sentirmi ripetere in serie collegamenti tipo: la Prima guerra mondiale, D’Annunzio, il Superuomo, Nietzsche, i War Poets, eccetera eccetera eccetera… Di tutto un po’, ma sempre uguale. Minestre riscaldate. Perché è nel Dna di questo colloquio, per come è pensato, per come è strutturato, che non si può fare altrimenti.
In un’ora lorda, dice l’ordinanza, bisogna: 1) offrire lo spunto e dare la possibilità al candidato di fare collegamenti; 2) “condurre l’esame” da parte dei commissari secondo le loro discipline; 3) ascoltare la relazione sul Pcto; 4) chiacchierare di cittadinanza e di Costituzione; 5) discutere gli scritti; 6) procedere alla valutazione. Il tutto con la bellezza di sei commissari d’esame coinvolti più un presidente. Sei commissari che rappresentano almeno sette-otto discipline. Sfido chiunque a condurre un dialogo in queste condizioni. Quando dialogate con qualcuno avete dei contenuti condivisi da approfondire, ma, soprattutto, vi concentrate su un argomento specifico. State parlando di un fatto storico? Che senso ha andare a finire a parlare per forza di formule chimiche o asintoti verticali? Non lo farebbe nessuno. Non lo fa nessuno. Quindi il dialogo che si vorrebbe impostato in una commissione d’esame è semplicemente irreale.
Non mi resta che assistere al disperato tentativo di uno studente di prodursi in una specie di free climbing da tuttologo di salotto televisivo. E io, commissario d’esame, posso solo prenderne atto. Va bene, anzi male. Perché a che serve? E io a che servo? Perché questa comparsata in questa commedia? Perché sto seduto a questo tavolo da gioco? “Torre di controllo aiuto, sto finendo l’aria dentro al serbatoio”!
Attenzione: la questione è grave. Siccome non si può cambiare il percorso, si cambia il traguardo, ma il traguardo ha poi la sua influenza sul percorso. E’ un cortocircuito. Il quinto anno diventerà un’esercitazione continua al rito delle tre buste, ad arrivare primi in un gioco di società in cui vince chi è più creativo, chi è più disinvolto, chi è più performante. Chi sa giocare con le formule, le frasi fatte. Chi monta e smonta, un po’ furbo, un po’ sornione, sempre cialtrone.
A questa formazione dovrà scadere l’insegnamento, a questa leggerezza ci si adeguerà. A questa cultura da riassunto, da snocciolare in cinque-dieci minuti. Siamo pronti, cari colleghi, a ridurci a questo? Ripeto: è giunta l’ora di dire basta. O ci siamo già rassegnati ad assistere allo scempio, per un imbelle quieto vivere?
Un’alternativa? Ridateci le due materie all’orale (magari aggiungendo, come terza, la lingua straniera). Ma fatele scegliere allo studente! Ha 19 anni, sta un anno di più sui banchi di scuola rispetto ai colleghi europei… sarà ora di dargli la possibilità, almeno una volta, di esprimersi esclusivamente su quello che ha capito di amare o prediligere? Perché, se si vede fra tre mesi alla facoltà di Giurisprudenza o di Filosofia, stiamo ancora lì a torturarlo con le reazioni chimiche (sulle quali l’abbiamo, tra l’altro, già valutato per un triennio)?
Due-tre discipline, dunque, ma approfondite, curate. E se ci piace il gioco delle tre buste, conserviamolo pure. E testiamo anche la capacità di fare collegamenti. E il colloquio sia davvero un dialogo, ma tra persone che s’incontrano a un livello profondo, coerente, culturalmente ricco. Forse ci sarebbe pure un risparmio per le casse dello Stato. Di sicuro il nostro lavoro di docenti avrebbe senso e dignità, ci sarebbero più stimoli, e gli studenti non studierebbero sui riassunti dei riassunti per dire riassunti.
A meno che non si voglia e non si cerchi proprio questo là dove la scuola viene tradita tutti i giorni. A meno che non si voglia eliminare del tutto l’esame, alternativa legittima e possibile. Diciamo che siamo sempre più sulla strada buona: “Leggera leggera / si bagna la fiamma / rimane la cera / e non ci sei più”.