È del 1972 la canzone di Giorgio Gaber sulla libertà, diventata famosa soprattutto per l’ultimo verso del ritornello: “Libertà è partecipazione”. Due anni dopo vengono varati i Decreti delegati della scuola, tra i quali il numero 416 che si occupa soprattutto della partecipazione degli utenti alla gestione delle scuole. Due “prodotti”, si può dire, di una stessa diffusa sensibilità originata dal ’68. Di per sé è una tendenza ineccepibile, connaturata all’idea stessa di democrazia fin dalle sue origini, tanto che possiamo persino scomodare Pericle: “Siamo i soli a considerare non pacifico ma addirittura inutile il cittadino che non si interessa degli affari pubblici”.
Naturalmente, il “come” si realizza la presenza attiva nella scuola dei genitori e, per le superiori, degli studenti, non è secondario. A giudicare dalla crescente difficoltà – segnalata da molte scuole dopo il periodo di iniziale entusiasmo – di trovare candidati per le elezioni degli organi collegiali, c’è più di qualcosa che non funziona (ne ha parlato a più riprese il preside Artini su questo giornale). Alla fine approdano spesso nel Consiglio persone poco motivate, che si sono prestate per spirito di servizio e, in genere, non possiedono che limitate conoscenze e attitudini per dare un contributo significativo. Spesso la partecipazione di una parte degli eletti è saltuaria e non sempre si raggiunge il numero legale.
Prima ancora di ripensare gli organi collegiali, a me pare che sia prioritaria l’esigenza segnalata già nel 2009 da Giuseppe De Rita, in un articolo intitolato “Nella scuola può tornare l’orgoglio”, in cui sostiene che “quando si deve governare il sistema scolastico, occorrono responsabilità organizzative ben disegnate e personale ben motivato. Per anni invece ci siamo divisi su ipotesi di riforma o su faticosi compromessi corporativi, evitando la banale verità che senza rinnovamento organizzativo nessuna riforma, anzi nessuna politica, è possibile”.
E da anni, in effetti, da molte parti si indica la necessità di affiancare ai dirigenti scolastici, in genere sovrastati da una grande mole di compiti e di responsabilità, una squadra di docenti con accertate competenze gestionali e progettuali, in sostituzione di un volontariato spesso generoso, ma poco preparato allo scopo. Figure che sarebbe appropriato inserire come membri di diritto del consiglio di istituto. In ogni caso, non si vede perché gli insegnanti non siano incoraggiati a farne parte da una retribuzione, come per qualsiasi altra attività aggiuntiva.
Venendo a come attuare al meglio la partecipazione di genitori e studenti, condivido la tesi, ribadita più volte, del docente di diritto amministrativo professor Carlo Marzuoli, per cui da un lato è necessario superare la cogestione/confusione con i genitori e gli studenti, riservando il consiglio d’istituto a chi è stato vagliato sul piano tecnico-professionale da esami e concorsi, cioè i docenti e il dirigente.
Detto questo, non si tratta affatto di togliere a genitori e ragazzi la possibilità di contribuire alla vita della scuola. “Partecipare” vuol dire prima di tutto avere la possibilità di far valere i propri interessi e diritti di utenti, di ottenere resoconti, insomma di rendere l’amministrazione più trasparente e controllata; e anche di avanzare richieste, di fare proposte, magari con la possibilità di essere ascoltati dal consiglio di istituto per illustrarle.
Per questo andrebbero creato organismi ad hoc, distinti fra quelli degli studenti e quelli delle famiglie. Il terreno su cui sviluppare l’iniziativa o la collaborazione delle famiglie, attraverso la creazione di questi nuovi organismi, è ampio e deve essere valorizzato. Si pensi a tante “educazioni” che si vorrebbero far entrare in classe e che in realtà sarebbero molto utili soprattutto ai genitori, che potrebbero organizzare (o collaborare all’organizzazione) di incontri su temi come l’educazione alimentare, il sempre più serio problema della dipendenza da smartphone, il bullismo e molte altre.
Quanto ai ragazzi, credo che la scuola potrebbe avere un ruolo più attivo come luogo di formazione civile e in senso lato “politica”, guidando gli studenti ad approfondire e a valutare con spirito critico i problemi sociali. Lo fa già attraverso lo studio delle materie scolastiche (non si sa quanto con l’educazione civica, visto il suo problematico statuto “trasversale”), ma può farlo anche, nelle superiori, incoraggiando e sostenendo la capacità di auto-organizzazione degli allievi. Nella scuola che in molti auspicano sempre aperta, un’associazione studentesca democraticamente eletta potrebbe imparare a progettare e realizzare ogni tanto incontri e attività pomeridiane per soddisfare interessi comuni. E sarebbe anche un modo di riconsegnare alla maggioranza di loro la titolarità di un’autoespressione seria ed efficace, utile a prevenire le occupazioni gestite da minoranze superficialmente ideologizzate e non rispettose dei diritti di tutti.
Ho avuto come studente una positiva esperienza in proposito, quando chiedemmo e ottenemmo di creare un “Circolo culturale” nel nostro liceo, che organizzò conferenze, incontri di orientamento per la scelta della facoltà universitaria, attività sportive, nonché un concerto di fine anno negli spazi della scuola (in cui suonarono gli allora celebri “Camaleonti”).
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