L’anno scolastico che sta per terminare (2023-2024) ha assistito all’importante novità della riforma della pratica dell’orientamento scolastico nella scuola. Ora, anche in vista della maturità 2024, ci si è interrogati sulla natura del famoso “capolavoro” da inserire nell’E-portfolio a dimostrazione delle abilità e competenze acquisite durante il percorso annuale di apprendimento. Se n’è occupato anche questo giornale, specificando che il capolavoro è un prodotto di qualsiasi tipologia che dimostri un progresso nella conoscenza di sé e dunque delle proprie attitudini in relazione, si badi bene, non necessariamente ad una attività scolastica, bensì alle competenze fondamentali indicate nei vari documenti ministeriali ed europei.



Le competenze con le quali confrontarsi sono quella alfabetica, multilinguistica, scientifica (in senso lato), digitale, imparare ad imparare, cittadinanza, imprenditoriale, consapevolezza culturale. L’estrema genericità lascia grande spazio all’immaginazione, con il rischio che la compilazione del portfolio (e tutta la gestione dell’attività di orientamento) si riduca alla formalizzazione di opportunità che la scuola o l’extrascuola sono tenute in ogni caso a fornire allo studente. In altri termini, la didattica è, o dovrebbe essere, sempre orientativa e capace di aprire l’alunno alla realtà circostante. In caso contrario, la stessa istituzione scolastica perderebbe di significato. Nel rapporto con gli alunni l’istituzione scolastica finisce sempre per peccare di impatto procedurale, come se non fosse in grado di accompagnarli veramente a scoprire i talenti che hanno addosso. Ancora qualche giorno fa (29 aprile), una inchiesta di Repubblica fotografava una situazione di ansia e disagio tra i ragazzi liceali (ma nei gradi inferiori la situazione non è poi migliore) che si riteneva confinata all’immediato dopo-Covid. I ragazzi confessano di sentirsi soli, di avere frequenti crisi di panico, di fare ricorso sempre più spesso agli psicofarmaci. Lo psicologo nella scuola è diventato una figura centrale, quasi più del docente curricolare che, fatte le debite eccezioni, è accusato di non comprendere i propri alunni, di essere troppo attaccato ai voti e a progetti predeterminati.



Non c’è dubbio, d’altra parte, come ancora ha documentato questo giornale, che il docente italiano sia stato ridotto a portatore di qualche conoscenza disciplinare, in alcuni casi anche molto specialistica e acquisita a prezzo di una formazione approfondita, ma del tutto deprivato dell’aura dell’educatore. Eppure mai come in questo momento i ragazzi avrebbero bisogno di incontrare dei maestri di vita e di cultura. Come ancora documenta Repubblica, gli alunni sono alla ricerca di “guide” per capirci qualcosa della loro vita e di quanto sta loro accadendo attorno. La guida è per definizione qualcuno che accompagna e l’insegnante, se lo fa, occorre che metta in campo la capacità di relazionarsi con l’altro. E qui sta forse il punto dolente di tutta la questione dell’orientamento e della difficoltà della scuola di sintonizzarsi con gli allievi, nonostante l’impegno di energie e di risorse profuse in questo campo. L’orientatore non può prescindere dal compito di guidare, ma se è avulso lui stesso dalla realtà come potrà assolvere questo scopo? Nessuno forse si è interrogato seriamente sul tema della speranza nella scuola.



Il contesto mondiale entro il quale oggi si insegna è segnato dal ritorno in grande stile della guerra e della distruzione di città, ambienti, esseri umani. Sembra lecito annichilire l’altro, invadere il territorio altrui oltrepassando confini e norme fissate, si credeva, una volta per tutte. La distruzione dell’umano che ci circonda e che fluisce attraverso i mezzi di comunicazione finisce probabilmente per trasformare l’ansia in angoscia. La scuola non è un filtro all’affanno collettivo perché non fornisce criteri per leggere quanto sta succedendo o se li fornisce lo fa in termini impersonali, magari moralistici (un richiamo, una buona parola, un ammiccamento). Ma il dolore del mondo, l’incomprensibile sofferenza dei più deboli, il contrasto delle interpretazioni dei conflitti finiscono per costituire un retroterra magari inconscio sul quale è difficile costruire oggi delle personalità. A meno che non intervenga la speranza. Una didattica della speranza, si potrebbe dire.

Come? I ragazzi devono percepire che sono un valore e che la loro vita ha un significato che non dipende dalle prestazioni che rendono. In secondo luogo, possono essere aiutati a esprimere i loro più profondi desideri attraverso l’incontro con la testimonianza dell’umano che giunge loro attraverso lo studio e la comprensione del continuo tentativo di trascendersi che l’uomo ha fatto. Possono anche imparare ad essere costruttori di pace attraverso la disponibilità ad ascoltare e ad ascoltarsi. Ascoltare e condividere delle storie, magari diverse e lontane dalla propria abituale quotidianità. Non c’è dubbio che oggi la pace cominci dalla condivisione della storia dell’altro: di ogni individuo rispetto all’altro, di ogni comunità rispetto all’altra, di ogni popolo rispetto all’altro.

Sfidare i ragazzi su questo punto, la costruzione della pace nell’ascolto di sé e dell’altro, è imprescindibile. A maggior ragione se si intende ottenere da loro stessi un passo di responsabilità che li sottragga al senso dell’inutilità. Ciascuno è utile, tutti lo siamo, a patto di non arroccarci in difesa. Il male che può toccarci, il dolore, la guerra, solo davanti allo scoglio di una personalità radicata nella speranza di un futuro che è buono perché è già ricco il presente, hanno la possibilità di non divenire i padroni della vita, ma di essere relativizzati nonostante tutto. In tutto questo, nell’apertura a un orizzonte di condivisione dell’umano proprio e altrui, può riacquistare senso il percorso di orientamento.

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