Mentre stavo raccogliendo le idee per un articolo sui provvedimenti per la ripresa della scuola post-Covid 19, articolo che comunque mi sarebbe stato censurato per una giusta condanna del turpiloquio da parte della redazione, mi è capitato sott’occhio sul Corriere della Sera un ampio servizio di Milena Gabanelli sull’evasione fiscale e le sue conseguenze. Scrive Gabanelli sotto il titolino “Manda i figli a scuola barando”: “L’istruzione pesa per 62,7 miliardi l’anno: elementari, medie e superiori sono gratuite. Per l’asilo nido e l’università paga (l’evasore fiscale, ndr) una retta più bassa perché va in base al reddito, e lui non dichiara il vero. Può sempre dire che manda i figli alle scuole private e che quindi lui non pesa. È vero, ma solo in parte, in realtà la retta sarebbe più alta se non ci fossero i 549 milioni di trasferimenti pubblici alle scuole paritarie e i 70 milioni verso le università private”.



Ora, a parte la sottintesa identificazione fra chi manda i figli alle scuole paritarie e gli evasori fiscali, che non mi pare il caso di suggerire nemmeno per  scherzo, vorrei fare con i lettori quattro conti per capire come stanno realmente le cose, conti che dovrebbero essere fatti in modo molto più raffinato, perché io non sono un’esperta in materia, ma che anche presentati in modo rozzo fanno riflettere.



Tanto per cominciare, se ridistribuissimo i 549 milioni fra gli studenti delle scuole statali, 7 milioni e 600mila, ciascuno di loro godrebbe di un finanziamento annuo maggiorato di ben 73 euro. Ma soprattutto, un trasferimento di 549 milioni è pari allo 0,87% della spesa totale: gli 866.805 ragazzi che frequentavano nel 2018 le scuole paritarie erano pari all’11,4% del totale. Destinare lo 0,87% all’11,4% a me personalmente pare una vistosa ingiustizia, ma anche tralasciando gli aspetti etici, mi pare anche che per lo Stato sia un ottimo affare.

Nel 2017, secondo l’Ocse, l’Italia spendeva, al cambio attuale del dollaro, 7.128 euro pro capite per i bambini della scuola dell’infanzia e primaria, 7.932 euro per la secondaria di primo grado e 8.200 euro per la secondaria di secondo grado. Per gli studenti paritari lo Stato spende 634 euro a testa. In realtà, il valore medio è privo di senso, perché i fondi vanno prevalentemente, circa il 60% a seconda delle Regioni, alle scuole materne, che sono frequentate da circa il 70% degli alunni delle scuole paritarie, circa mezzo milione di bambini, contro i 900mila delle scuole statali. Per questi ultimi, lo Stato spende ogni anno un po’ più di 6 miliardi di euro. È ovvio che non si può semplicemente calcolare il risparmio moltiplicando il numero di bambini paritari per la spesa del bambino statale, ma certamente l’ordine di grandezza fa (o dovrebbe fare) una certa impressione.



Le scuole primarie ricevono un sussidio per classe di circa 20mila euro, meno della spesa per tre bambini statali, e per le secondarie di primo e secondo grado i finanziamenti sono quasi inesistenti, si aggirano intorno al 4% del totale. Tanto per sottolineare come i bambini delle scuole paritarie siano cittadini nemmeno di serie B, ma del campionato dilettanti, il sussidio per il sostegno di un ragazzi disabile è pari a circa 1.500 euro l’anno, mentre i 259.757 studenti disabili inseriti – meritoriamente – nella scuola statale possono contare su 150.609 insegnanti di sostegno, il cui stipendio nell’anno in corso (2020) variava da 1.100 a 1.800 euro netti.

Non è difficile capire come mai nelle scuole paritarie i bambini disabili siano proporzionalmente meno numerosi che nelle scuole statali. Non è difficile nemmeno capire come mai i genitori dei bambini paritari, perlomeno quelli che non sono evasori ma pagano regolarmente le tasse per un servizio che non usano, pensino di essere discriminati.

Non ho fatto, volutamente, nessun confronto con gli altri paesi, sia perché il mio intento era solo di suggerire che se qualcuno bara, non sono i genitori che mandano i figli alle scuole paritarie; sia perché la spesa per l’istruzione è uno dei dati più variabili: nel 2017, al costo medio pro capite per i paesi Ocse di 10.500 dollari corrispondeva un ventaglio di valori che andava da 3.600 per la Colombia e il Messico, a 22.000 per il Lussemburgo, e 15.00 per Austria e Norvegia. Scrive però il Rapporto Ocse del 2019: “La distribuzione della spesa nei differenti livelli dell’educazione riflette le priorità dei governi” e, aggiungo io, il suo rapporto con le altre voci della spesa pubblica riflette l’importanza attribuita all’istruzione.

Bene, nell’anno a cui si riferiscono i dati citati, gli interessi sul debito pubblico sono stati superiori al 69 miliardi: il che assegna all’Italia il poco invidiabile primato di essere l’unico paese dell’Unione che spende per l’istruzione meno di quanto paga in interessi sul debito pubblico.

In un momento in cui siamo chiamati a unire tutte le risorse per ripartire, io non vedo nessun tentativo di pensare alla scuola volando alto. Mascherine, distanziamento, valorizzazione degli spazi esterni, riduzione degli orari: più che giusto essere molto prudenti, ma che cosa faranno in giardino questi scolari mascherati e distanziati, in ore fantasiosamente ridotte a 40 minuti? (Mi pare tra l’altro di ricordare che la proposta di far recuperare agli insegnanti in ore di sostegno o arricchimento curricolare i dieci minuti delle ore di 50 minuti, che in un anno erano pari a un centinaio di ore, fu bollata come repressiva, subissata di critiche e prontamente ritirata).

Delle due funzioni che la scuola ha, quella di cura, o di relazione, e quella di istruzione, la funzione di cura è stata disattesa alla grande, soprattutto per i piccoli, e questo incide pesantemente sulle possibilità di tornare alla piena occupazione per le donne, e per le famiglie in generale, e peggio sarà se, in mancanza di adeguate misure di sostegno, con i nuovi parametri non meno di un terzo delle scuole dell’infanzia paritarie saranno costrette a chiudere. Dall’altro lato, l’investimento per migliorare la qualità dell’istruzione resta sempre e prevalentemente destinato ad aumentare il numero, non necessariamente la qualità, degli insegnanti.

Una nazione come la nostra, in pesante crisi demografica, dovrebbe puntare sulla competitività della sua risorsa umana: ma a parte qualche indicazione inevitabile sulla digitalizzazione, non ne trovo traccia nelle ipotesi ministeriali. Anche se è un’ovvietà, l’Ocse nota che i paesi più sviluppati sono quelli che hanno i sistemi formativi migliori, e i sistemi formativi di qualità contribuiscono allo sviluppo: è precisamente la capacità di attivare questo circolo virtuoso che manca ai nostri decisori politici. Se poi vogliamo guardare all’equità, è palese che questi mesi di formazione a distanza hanno pesantemente e ulteriormente penalizzato i ragazzi delle fasce più svantaggiate, a partire dai disabili: ma, anche qui, provvedimenti relativamente ovvi, come l’utilizzo dei mesi di giugno e luglio per supportare chi non ha potuto fruire della didattica a distanza, non mi paiono al centro dell’attenzione.

Si parla molto, invece, dell’elevata età media dei docenti, che sono quindi a rischio, per dire che non potranno fare gli esami di maturità in presenza, e forse nemmeno riprendere a settembre. Ideona: e se i 549 milioni, invece che per i riccastri delle scuole paritarie, li utilizzassimo per fare i tamponi ai docenti di mezza età?