270mila scuole in 107 paesi, 62 milioni di studenti. Questa la realtà delle scuole cattoliche presenti nel mondo, che si sono riunite, rappresentate dalle loro organizzazioni ufficiali, nel convegno mondiale dell’Oiec, l’organizzazione delle scuole cattoliche, che si è tenuto a New York all’inizio di giugno, con il patrocinio della Congregazione per l’educazione cattolica, il cui segretario generale, monsignor Vincenzo Zani, ha tenuto la relazione conclusiva presso le Nazioni Unite.



Il tema del convegno, che si dichiarava esplicitamente ispirato all’enciclica Laudato si’ e alla dichiarazione delle Nazioni Unite su Education 2030, era il contributo delle scuole cattoliche allo sviluppo e alla tutela della casa comune, tema che mi era stato chiesto di sviluppare anche nella mia relazione. Erano presenti rappresentanze di ottanta paesi, che hanno testimoniato della grande vitalità e delle potenzialità ancora maggiori delle scuole cattoliche. A parte l’interesse personale, vorrei condividere con i lettori del Sussidiario alcune considerazioni.

La prima è l’ammirazione per la qualità e la varietà delle esperienze realizzate – spesso senza grandi mezzi – dalle scuole cattoliche nei paesi in via di sviluppo, dove hanno attuato nei  fatti quella fraternità e quell’integrazione che il ricco occidente spesso si limita a teorizzare. Una suora libanese (qualcuno dica a Salvini che il Libano, con quattro milioni di abitanti, ospita un milione e mezzo di profughi siriani, 250mila palestinesi e alcune decine di migliaia di iracheni), illustrando il progetto della sua scuola, con un 92% (novantadue!) di studenti non cattolici, ha detto: “I siriani ci hanno dominato per trent’anni, per cui quando hanno incominciato ad arrivare i primi profughi, abbiamo pensato ‘ben gli sta!’. Subito dopo, però, abbiamo pensato: sono nostri fratelli, sono bambini, e abbiamo aperto loro le scuole”. Non servono altre parole, credo, per spiegare il concetto di accoglienza della Chiesa.

La seconda osservazione nasce immediatamente da questa prima, ed è che una visione eurocentrica della Chiesa ha ormai fatto il suo tempo, e il futuro non sta nei nostri ristretti confini. Nel vedere la sfilata dei sacerdoti che andavano all’altare per la messa iniziale in san Patrick, officiata dal nunzio apostolico a Washington, li ho contati (ebbene sì, soffro in forma lieve di comptomania…): erano settantatré, e almeno trentuno erano immediatamente identificabili come “non caucasici” per usare un termine molto usato negli Stati Uniti per indicare i bianchi. Il decreto Ad Gentes del 1965 riprendeva con grande forza il tema dell’universalità della Chiesa, e uno sguardo oltre la nostra ristretta realtà ci costringe ad uscire da consolidate certezze: il sacerdote che qui a Milano ha fatto la prima Comunione alla mia pronipotina è nordafricano, e il presidente della Conferenza africana dei gesuiti che ha parlato dopo di me non solo risponde al nome di Orobator Agbonkhianmeghe, su cui vedo in difficoltà le vecchiette, ma pur essendo un raffinato teologo e docente a Washington, va in giro vestito come un rapper. Indiani, coreani, filippini, malesi, africani di ogni nazione: le rappresentanze nazionali erano ottanta.

E qui si colloca la terza considerazione, e cioè la quasi totale irrilevanza della presenza italiana. Molti dei religiosi presenti, per non dire la maggioranza, parlavano italiano o almeno lo capivano, ma mi pare riduttivo limitare il contributo della scuola cattolica italiana alla lingua franca in cui molti comunicavano più agevolmente che in inglese. Eppure il Centro Studi Scuola Cattolica e la Fidae testimoniano di una presenza ancora capillare delle istituzioni cattoliche, e associazioni come la Fism, che conta circa 8mila scuole materne, e la Foe, ne radunano un numero non indifferente. Si è sbiadita, a mio avviso, quella consapevolezza di sé e del proprio compito che contraddistingue le scuole di altri paesi; ordini religiosi che in Italia hanno molto ridotto la propria attività sono invece vitalissimi in altri paesi, e sono interlocutori ai massimi livelli per le politiche scolastiche: Armin Luistro, fratello delle scuole cristiane che ha parlato al convegno, è stato segretario del Dipartimento dell’Educazione delle Filippine. In Italia lavorare nella scuola ed essere cattolici sono entrambe caratteristiche poco apprezzate (la pronipotina di cui sopra direbbe “da sfigati”), con il risultato che l’ottimo lavoro fatto dalla maggior parte delle scuole cattoliche non esce dalle mura delle medesime, che conservano un’immagine di nido per ragazzini protetti di buona famiglia. C’è qualche eccezione, come i salesiani da combattimento della formazione professionale o le suorine che recuperano le ragazze di strada, ma parrebbe che dopo don Milani la scuola cattolica non abbia più avuto niente da dire, e anzi gli ammiratori laici di don Milano hanno cura di sottolineare che la gerarchia non lo apprezzava affatto.

E allora? E allora vorrei concludere con un’ultima osservazione, forse la più pessimistica: le scuole cattoliche in Italia – ma potremmo allargare il discorso a un vasto settore delle paritarie – non sono capaci, o forse non vogliono, di fare sentire la loro voce. Consumano buona parte delle loro già ridotte energie nel litigare fra di loro, e in alcuni casi vendono la primogenitura per un piatto di lenticchie. Il Sussidiario dà spazio a persone che difendono, spesso inascoltate, i diritti delle famiglie nella scelta scolastica per la non statale, ma chi osserva dal di fuori vede una grande difficoltà a fare massa critica, e a comunicare, se non a formulare, una proposta educativa chiara e attraente.

Non so a chi spetti questo compito, che anche monsignor Zani, in una breve conversazione, considerava fondamentale: ma ritengo che sia urgente, in una situazione di vuoto educativo e di  depotenziamento delle famiglie, recuperare il valore della proposta culturale della scuola cattolica, con un’adeguata comunicazione e con una rinnovata capacità di fare rete. Possiamo chiedere l’aiuto delle suore libanesi e dei teologi nigeriani…