Gentile direttore,
leggendo l’articolo di Antonio Magliulo del 22 maggio in merito alla discussione sulle scuole paritarie, che ha preso spunto sia dagli articoli di Corrado Augias e di Alessandro de Nicola apparsi su Repubblica, mi è sembrato di tornare indietro di 35 anni quando nel 1985, sull’onda delle manifestazioni francesi denominate “L’école libre vivra” (ero presente a quella di Parigi dove parteciparono più di un milione di persone, con l’appoggio dell’allora cardinale di Parigi Lustiger), iniziò anche in Italia una forte campagna culturale sulla libertà di educazione che mi vide tra i protagonisti, in quegli anni essendo responsabile scuola dell’allora Movimento Popolare.
A dire il vero quella battaglia culturale iniziò anni prima, se mai, più in sordina, quando don Giussani affermava, con la sua memorabile forza: “Mandateci in giro nudi ma lasciateci la libertà di educare” e questo, miracolosamente, innescò l’operosità di molti genitori che, riunendosi in associazioni e cooperative, fondarono delle “scuole libere” all’inizio senza nessun riconoscimento giuridico (funzionavano come “scuola paterna” prevista dalla Costituzione) e poi con i riconoscimenti previsti dalle norme vigenti, cioè la parifica per le scuole elementari e il riconoscimento legale per le scuole medie inferiori e superiori.
Queste opere educative si affiancarono alla grande tradizione di scuole istituite da ordini religiosi (facenti capo alla Fidae, Federazione Istituti Attività Educative) che, ricordiamolo, sono nate lungo i secoli innanzitutto per permettere l’istruzione gratuita ai bambini e ragazzi delle famiglie povere e analfabete.
Dare lo status di “scuola pubblica” a queste scuole sorte per iniziative di “formazioni sociali” (garantite dall’art. 2 della Costituzione) è sempre stato un muro insormontabile ancora più assurdo, vista la quantità di muri che sono crollati in questi decenni. Ma la difficoltà a ritenere queste scuole libere come scuole “pubbliche” – e perciò anche queste gratuite per chi le sceglie – viene da lontano: lo Stato unitario di fine 800 aveva necessità di realizzare oltre l’unità politica anche una unificazione culturale, e scelse la via più semplice, anche se in qualche misura contraria ai principi liberali che lo ispiravano: la statizzazione del sistema di istruzione sul modello napoleonico, e perciò la creazione di un’amministrazione scolastica costruita con le stesse regole e prassi dei modelli ministeriali.
Così anche le scuole sono definite quali “organi tecnici dello Stato”. Questo tra l’altro ha giocoforza penalizzato le scuole cattoliche esistenti, ma questa era un’ulteriore carta vincente, visti i rapporti tesi di allora tra Stato e Chiesa.
Immaginiamoci se questo modello non andò a pennello sotto il regime fascista.
Ma con l’avvento della Repubblica non cambiò molto e la scuola statale “istituita dalla Repubblica” (come recita la Costituzione all’art. 33) continuò ad essere gestita dall’amministrazione statale centralizzata secondo il modello ottocentesco. Perciò: scuola pubblica = scuola statale, il resto è scuola “privata” (termine peraltro assente dalla Costituzione).
Se poi si pensa che questa scuola statale è stata governata dalla Dc ininterrottamente dal dopoguerra agli anni 90 e che le associazioni cattoliche governavano di fatto il ministero della “Pubblica Istruzione” occupando le varie direzioni generali e le miriadi di commissioni, si capisce che tutto l’operato politico della leadership dominante del mondo cattolico si concentrò di fatto sulla capacità di condizionare politicamente e culturalmente la gestione della scuola statale, indebolendo però la possibilità di un cambiamento.
La Dc scelse di rendere sempre più statalista (tanto governava lei) la prima parte dell’art. 33, che afferma che “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” e che “la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi” trattando come un macigno insormontabile il famoso emendamento Corbino (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”), in base al quale tutti gli altri partiti ritenevano impossibile fare una legge sulla cosiddetta parità scolastica che permettesse il finanziamento pubblico di tali scuole.
Giovanni Gozzer (1915-2006), forse l’ultimo storico delle vicende scolastiche, che mi fu maestro in queste cose negli anni 80 dove ero, come ho accennato sopra, in prima linea, mi diceva sempre che questo ripiegamento-rinuncia della Dc avvenne dopo il tentativo fallito dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Guido Gonella (dal 1946 al 1951) che predispose un disegno di legge che adempiva finalmente a quanto prescritto dalla Costituzione e si denominava appunto “Norme generali sull’istruzione” dove si disancorava la nozione di scuola pubblica coincidente con scuola statale e si leggeva in modo unitario l’art. 33 della Costituzione, per cogliere dentro tutto quel contesto l’ultimo famoso comma Corbino.
La stessa parola “parità” in fondo era (ed è secondo me ancora) frutto di questa concezione statalista, ridotta sempre più all’idea di un finanziamento che lo Stato, bontà sua, dovrebbe concedere a scuole che comunque non sente sue. Per questo rappresentò un momento di capovolgimento culturale lo slogan che coniammo per un convegno nel 1985, “Verso una scuola pubblica non di Stato” e che trovò attenzione in numerosi ambienti laici (ricordo gli articoli sul Giornale di Federico Orlando o di Nicola D’Amico sul Corriere, i dialoghi con il liberale sen. Valitutti fino alle aperture dell’on. Martelli allora vice segretario del Psi).
Era come dire: basta chiedere la parità come concessione, ridisegniamo tutto il sistema scolastico in modo che diventi un sistema scolastico interamente libero dove le scuole “istituite” (la Costituzione non dice mai “gestite”) dallo Stato e quelle nate in forza dei diritti sanciti per le formazioni sociali (art. 2 Costituzione) trovano la loro legittimità e il loro funzionamento all’interno delle norme generali.
Per questo, nel 1987, presentammo in Parlamento un disegno di legge di iniziativa popolare, raccogliendo più di 500mila firme, denominato “Norme generali sull’istruzione” che registrò un consenso di molti intellettuali cattolici e laici e aperture significative nei partiti tradizionalmente contro la parità (penso alla sen. Alberici del Pci, a Ethel Serravalle, storica responsabile scuola del Partito repubblicano e, come ho detto, a diversi esponenti del Psi).
Così, secondo noi, si sarebbe capito perché il rapporto pubblico-privato era un “falso problema”, come diceva il titolo di un’interessante ricerca di quegli anni 80 curata dalla Fondazione Agnelli.
Finalmente il dibattito usciva dalle secche della richiesta di “soldi alle scuole private” (legittima ma inascoltata, nonostante fin da allora si dimostrasse il risparmio dello Stato dovuto alla frequenza a queste scuole anziché a quelle statali) e poneva i cattolici alla guida di un salto di qualità di tutta la scuola italiana, tenendo insieme, ripeto, l’art. 2, l’art. 30 e “tutto” l’art. 33 della Costituzione.
Augusto Del Noce, in un convegno del 1987 intitolato “Verso una scuola pubblica” affermava: “Il privilegio che i laici accordavano in passato alla Scuola di Stato era legato all’idea dell’educazione ‘nazionale’: compito della scuola era creare l’unità morale della nazione. Ma ciò presupponeva l’esistenza di un catechismo unico che unisse famiglia, scuola, città e nazione. Ma nella situazione di oggi la politica scolastica può ignorare la trasformazione che è avvenuta nella società? Oggi parlare di scuola pubblica significa la designazione di un organismo che comprende accanto alla scuola gestita dallo Stato quella a cui attendono i diversi soggetti sociali. Scuola pubblica caratterizzata dalla pluralità rispetto alla quale può realizzarsi la scelta, motivata da responsabilità educative della famiglia e dei discenti”.
Un’ulteriore opportunità per un capovolgimento di concezione fu la relazione di Sabino Cassese alla Conferenza nazionale sulla scuola del 1990, con Sergio Mattarella ministro dell’Istruzione, che parlò di “scuole della Repubblica” affermando che “la Costituzione è morta quando dispone che le scuole da istituire siano statali, infatti la scuola non serve lo Stato, ma serve ad una funzione, quella dell’istruzione, di cui è responsabile … col mutare del rapporto tra Stato e società e di quello tra scuola e Stato, ci si è andati lentamente rendendo conto del fatto che lo Stato non può essere responsabile dell’istruzione. Lo è la scuola, in quanto corpo dotato di autonomia. L’istruzione – continuò Cassese – non è più un servizio collettivo di tipo statale, ma un servizio collettivo pubblico, retto da professionisti la cui attività non è riducibile al modello amministrativo di tipo burocratico”. Questa relazione, ricordo perché ero presente, creò scompiglio e reazioni fortemente negative in tutto quel mondo cattolico legato alla concezione statalista della scuola, che si trovava su queste cose in accordo con molti sindacati e tutta la sinistra.
La prospettiva di Cassese – sia ben chiaro – non era ancora risolutiva del rapporto con le scuole bollate come “private”, ma avrebbe certamente posto le basi culturali e politiche per trattare il loro riconoscimento pubblico e perciò anche il loro finanziamento dentro una gestione innovativa e moderna di tutto il sistema scolastico.
Non se ne fece niente, se non di usare l’autonomia delle istituzioni scolastiche come un semplice maquillage della scuola gestita dallo Stato.
Sono stati fatti passi avanti in questa direzione? A livello politico il fatto più rilevante è quello dell’approvazione della legge del 2000 “Norme per la parità scolastica” per opera dell’allora ministro Luigi Berlinguer, che però rimane figlia di un’impostazione comunque statalista, come dimostra non solo l’assenza di passi avanti dopo tale legge, ma, anzi, il crescente pregiudizio politico sul finanziamento a tali scuole.
Questo retaggio del passato è difficile, perciò, che venga estirpato, perché ha radici profonde e anche se ci fosse una maggioranza favorevole in Parlamento (Berlusconi l’aveva) una legge che finanzi tutte le scuole ritenute pubbliche scatenerebbe l’insurrezione popolare.
Secondo me occorre puntare sulle Regioni che, non potendo ovviamente intervenire sull’assetto istituzionale della scuola, possono scegliere di tutelare le famiglie che aderiscono alle formazioni sociali che gestiscono scuole “paritarie” (quindi facendo leva sull’art. 2 della Costituzione oltre che sull’art. 30 che sancisce il loro “dovere di mantenere, istruire, educare i figli”) attraverso l’istituzione del “buono scuola” (dizione usata in primis dalla Lombardia sotto la presidenza Formigoni e poi seguita dal Veneto).
A breve non aspettiamoci più di qualche manciata di soldi dallo Stato (è fin noioso ricordare che con gli ultimi decreti può avere più contributo chi si compra un monopattino di chi manda il figlio in una scuola libera); le uniche risorse potranno venire dalle Regioni, se potenzieranno i buoni scuola fino a non far pesare a livello economico la libertà educativa e la libertà di insegnamento, e dall’iniziativa solidale del popolo cristiano, come testimonia la Cei con l’istituzione di borse di studio per alunni bisognosi delle scuole non statali.
In definitiva, alla luce di questo sintetico excursus, credo che il futuro del dibattito non debba incentrarsi sulla parità scolastica ma sulla sussidiarietà (che è anche conseguenza politica a mio avviso dell’art. 2 della Costituzione già citato) e, di conseguenza, sulla lettura intera e innovativa dell’art. 33.