È recente la proposta di estendere l’obbligo scolastico dai 3 ai 18 anni. Una proposta che ha già provocato prese di posizione, commenti, valutazioni di diversa natura. Quello che mi ha incuriosito maggiormente è il fatto che una riforma di tal portata non potrebbe essere realizzata senza il coinvolgimento massiccio delle scuole dell’infanzia paritarie. Ricordiamo che gli alunni frequentanti le scuole dell’infanzia statali sono circa 900mila, quelli nelle paritarie sono circa 500mila e questi ultimi sono la maggioranza in Regioni come la Lombardia e il Veneto.
Dalle prime considerazioni emerse in questo dibattito appena avviato mi sembra riapparire una posizione estremamente ambigua: afferma che il ruolo delle scuole paritarie dell’infanzia è molto importante perché svolgono un servizio dove lo Stato non riesce ad esserci. È una valutazione piuttosto comune anche in tanti che normalmente non hanno simpatia per il sistema paritario in generale. Infatti non ho mai sentito lo stesso discorso fatto riguardo ad altri livelli scolastici (primarie e secondarie).
Purtroppo questa tesi rivela una concezione sussidiaria ribaltata: l’iniziativa sociale che ha generato le scuole paritarie serve a coprire le mancanze dello Stato. Si può ben portare questa logica fino a dire che qualora lo Stato diventasse capace di fare tutto non ci sarebbe più bisogno delle paritarie.
In un certo senso è già quello che accade nella normalità della vita della scuola: tutto ciò che riguarda la scuola italiana è pensato avendo come unico interlocutore quella statale. Sostanzialmente per tutti coloro che si occupano di “scuola” questa equivale a scuola statale. La paritaria è “pensata” come del tutto accessoria, un di più di cui si potrebbe fare volentieri a meno. Viene presa in considerazione sempre dopo e normalmente su gentile richiesta di chi ci opera.
Eppure sono passati addirittura vent’anni da quando la legge 62/2000 ha istituito il Servizio nazionale di istruzione formato da scuole statali e scuole paritarie degli enti locali e private. E se è pur vero che, in termini di alunni frequentanti il sistema paritario, siamo a livelli da monopolio statale (nella primaria circa il 7%, mentre nella secondaria di primo e secondo grado non si arriva al 4%), non sono queste risorse vive della scuola italiana?
Oltre a considerare il fatto che non attuare in modo effettivo il fondamentale diritto di libertà di scelta educativa impoverisce la scuola stessa e la vita sociale, possiamo permetterci, specialmente nella condizione in cui stiamo vivendo, di non sostenere e valorizzare tutte le realtà educative e di istruzione che esistono? Quando da più parti autorevoli si afferma che è necessario e vitale investire sulla scuola, di quale scuola stiamo parlando?
Forse a queste domande ci può aiutare a rispondere anche il più grande confronto che ci sia stato in Italia sulla scuola: quello avvenuto durante l’Assemblea costituente. In Prima sottocommissione nell’ottobre del 1946 e in Assemblea nell’aprile 1947. Quel dibattito drammatico, intenso e di altissimo contenuto culturale e politico, che ha visto protagonisti quali Moro, Marchesi, Togliatti e Dossetti, affronta argomenti di grande attualità. Noi lo abbiamo colpevolmente ridotto a quel “senza oneri per lo Stato”, ma con quelle discussioni possiamo confrontarci, per capirci meglio e aprirci al futuro: “(…) a noi sembra essenziale, perché vi sia vera libertà in materia di educazione, che sussista accanto all’iniziativa statale (…) una molteplicità di iniziative educative ed una possibilità effettiva di scelta da parte (…) di coloro i quali sono interessati al processo di educazione” (Aldo Moro, Assemblea costituente, 22 aprile 1947).