Il volto di un Francesco Guccini giovanissimo, ancorché barbuto, mi accoglie dalla lavagna elettronica al mio ingresso in classe alla fine della ricreazione di un normale giorno di scuola.
“Oh, Guccini! – esclamo rivolto a Simone, il mio alunno di quinta liceo – ma chi lo ha proposto?” chiedo. La risposta mi coglie di sorpresa. “Il prof di religione. Ci ha fatto ascoltare Dio è morto”. E aggiunge: “Sa, le ore di religione sono forse le più interessanti”.
Ho incontrato la classe di Simone solo alla fine del suo iter didattico, ma i miei colleghi di corso devono avere svolto un ottimo lavoro perché il mio alunno, sedicente ateo e comunista, vive le sue convinzioni come ipotesi che lo gettano nel confronto aperto con tutto senza divenire muro di chiusura ideologica. Mi sento confortato, è la laicità che cerco.
Ultima ora. In quarta è la volta di Jonathan Swift e dei Viaggi di Gulliver. Abbiamo già messo a tema la misantropia dell’autore di Dublino, e voglio leggere loro un passo in cui si mostra il morso velenoso del suo genio satirico. Dopo avere ascoltato pazientemente le lodi della civiltà britannica, il gigantesco re di Brobdingnag osserva mestamente, accarezzando il capo del suo minuscolo ospite, che i suoi compatrioti rappresentano senza dubbio: “la più perniciosa razza di ributtanti vermiciattoli cui la natura abbia mai permesso di strisciare sulla superficie della terra”. “Forse – osservo – al riferimento agli inglesi dell’epoca si potrebbe sostituire la parola ‘umanità’ senza alterare il senso dell’affermazione swiftiana”. E per rendere evidente la logica della mia argomentazione mostro loro su Google le immagini delle donne dietro il filo spinato di Auschwitz; il grido delle madri di Gaza tra le macerie dei bombardamenti; la foto della bambina vietnamita che corre nuda perché i vestiti (e la sua pelle) sono stati bruciati dal napalm. “È Swift a essere misantropo? Si possono amare davvero gli uomini, e le donne, quando essi sono capaci di tutto questo?”.
Dall’ultimo banco, con l’espressione seria e triste di chi ci ha pensato su tante volte, Martina dà voce al pensiero comune: “No”. Beatrice allarga un po’ il campo: “Forse si può voler bene a qualcuno – concede con sincerità – non certo all’umanità”.
“E voi, vi siete mai sentiti amati dopo avere fatto qualcosa di cattivo?” chiedo, tentando di fare emergere l’esperienza personale. “Sì – confessa Enrico alludendo al perdono dei genitori – e mi sono sentito davvero libero”. Il desiderio di essere affermati nel nostro valore infinito anche quando sbagliamo, anche quando non ne saremmo degni, non riesce ad essere sradicato nemmeno dalla certezza della nostra futura incoerenza. “Ma voi conoscete qualcuno capace di amare tutti anche quando non lo meriterebbero?” Silenzio.
Mi giro verso il muro alle spalle della cattedra per indicare chi viene in mente a me, ma non trovo ciò che cerco. Il mio sguardo corre inutilmente lungo la parete alla ricerca dell’Uomo sulla croce. Ma qualcuno lo ha tolto e nessuno si è curato di riappenderlo. Come faremo a capire che siamo voluti incondizionatamente, affermati ogni volta, di nuovo, come un valore infinito se non possiamo guardare a qualcuno che ci guarda così? Dio è morto? È stato rimosso?
Eppure dalla parete vuota alle mie spalle, dai volti spaesati dei miei alunni a scuola e fuori echeggia più forte che mai il grido laico del grande scrittore svedese Lagerkvist: “Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terra della tua assenza?”
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